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L'ultima cena e la croce Cristo è stato crocifisso da questo mondo, dal suo peccato, dal suo odio, dalla lotta che combatte contro Dio. Nella storia, nel nostro tempo terreno, l'iniziativa della croce è sempre, partita dal peccato, cosi come continua a essere sua anche ora, in ciascuno di noi, quando con i nostri peccati dentro di noi rimettiamo il Figlio di Dio in croce e lo insultiamo (cf Eb 6,6). Ora, se la croce, strumento di un'esecuzione infamante, è divenuta il simbolo venerabile della nostra fede, della speranza e dell'amore, se la Chiesa continua incessantemente a glorificarne la potenza paradossale e indefettibile, a vedere in essa "la bellezza dell'universo" e "la guarigione del creato", a confessare che "la gioia è entrata nell'universo tramite la croce", tutto questo certamente avviene in primo luogo perché, attraverso quella croce che aveva incarnato l'essenza stessa del peccato – cioè la lotta contro Dio – il peccato è stato vinto; in secondo luogo perché la morte sulla croce, nella quale la morte che regnava sul mondo sembrava celebrare il suo definitivo trionfo, quella morte è stata annientata; infine, perché dalle profondità di questa vittoria della croce si è irradiata la gioia della resurrezione. Ma cosa può aver trasformato la croce in una simile vittoria, e continua a farlo, se non l'amore di Cristo, quell' amore divino che durante l'ultima cena Cristo ha rivelato essere la sostanza stessa e la gloria del regno di Dio? E in quale occasione, se non nell'ultima cena, è stato offerto il dono di questo amore nella sua pienezza, quel dono che ha reso inevitabile in questo mondo la croce (cioè il tradimento, le sofferenze, la crocifissione e la morte)? È proprio a questa relazione tra ultima cena e croce, nella quale si manifesta il Regno e la sua vittoria, che rendono testimonianza sia l'evangelo che la Liturgia (soprattutto gli uffici della Settimana santa della passione, di straordinaria profondità). In essi l'ultima cena viene costantemente ricollegata con la notte che la circonda da ogni parte e nella quale la luce della festa dell'amore s'irradia con particolare forza, quando, nella camera alta, grande e già pronta (cf Mc 14,I5), Cristo la celebra con i discepoli. E la notte del peccato, l'essenza di questo mondo. Ed ecco che la notte s'infittisce all'estremo, pronta a inghiottire quest'ultima luce che brilla in essa. Già "i principi si sono radunati insieme, contro il Signore e contro il suo Cristo" (At 4,26). Sono già stati versati i trenta denari, prezzo del tradimento. Già la folla eccitata dai suoi capi, armata di spade e bastoni, irrompe sulla via del Getsemani. Ma le tenebre di quella notte pesano anche sull'ultima cena (e questo è di importanza capitale per una comprensione ecclesiale della croce). Cristo sa che la mano di chi lo consegna è con lui sulla tavola (cf Lc 22,21). È proprio dall'ultima cena, dalla sua luce, che "preso il boccone" (Gv I3,30) Giuda esce in quella notte terribile, seguito quasi subito da Cristo. E se gli uffici del Giovedì santo, giorno in cui si commemora in modo particolare l'ultima cena, sono un continuo intrecciarsi di gioia e di afflizione, se la Chiesa fa memoria ancora e incessantemente non soltanto della luce, ma anche delle tenebre che l'hanno oscurata, è perché in queste due uscite successive, di Giuda e di Cristo, fuori dallo stesso chiarore incontro alla stessa notte, la Chiesa vede e riconosce l'origine della croce come mistero del peccato e come mistero della vittoria sul peccato. Il mistero del peccato. L'uscita di Giuda infatti è il culmine e la consumazione del peccato, la cui origine si colloca nel paradiso: l'amore dell'uomo abbandona Dio, sceglie se stesso e non Dio. Inizia quella scelta di decadenza che determina dall'interno l'intera vita, l'intera storia del mondo, di questo mondo caduto, che giace nel male sotto il potere del suo principe, il divisore. In quel momento, con l'uscita di Giuda, apostolo e traditore, nella notte, la storia del peccato, dell'amore accecato, pervertito, caduto e divenuto rapina – perché accaparra per sé la vita che è stata donata per essere comunione con Dio, quella storia giunge al termine. Il significato mistico e inquietante di quell'uscita consiste precisamente nel fatto che Giuda esce in realtà dal paradiso, lo fugge, ne viene cacciato. Egli aveva assistito all'ultima cena, i suoi piedi erano stati lavati da Cristo, aveva ricevuto nelle mani il pane dell' amore di Cristo, il Signore si era donato a lui in quel pane. Egli aveva visto, sentito, toccato con le sue mani il regno di Dio. Ed ecco che, proprio come Adamo, perpetrando il peccato originale del primo uomo, spingendo al limite estremo la logica spaventosa del peccato, egli non voleva più saperne di quel Regno. In Giuda aveva vinto il mondo, con la sua volontà antitetica a quella di Dio e il suo amore decaduto. Di conseguenza, secondo la stessa logica, tale volontà non poteva non diventare quella di uccidere Dio. Dopo l'ultima cena, Giuda non ha più un luogo dove andare se non incontro alle tenebre del deicidio. E quando questo sarà perpetrato, quando tale desiderio sarà stato soddisfatto, con la vita "per sé" che lo anima, per Giuda non ci sarà altra via di uscita se non l'autodistruzione. Il mistero della vittoria. In Cristo, che tramite il dono di se stesso nell'ultima cena manifesta il suo Regno e la sua gloria, il Regno esce nella notte di questo mondo. Dopo l'ultima cena anche Cristo non ha più altro luogo ave andare se non all'appuntamento, al duello sino alla fine con il peccato e la morte. E questo perché i due regni, quello di Dio e quello del principe di questo mondo, non possono coesistere; perché, per distruggere il potere del peccato e della morte, per riportare a sé la sua creatura che gli era stata sottratta dal diavolo, e per salvare il mondo, Dio ha donato il suo unico Figlio. Cosi, con l'ultima cena, con la manifestazione del regno dell'amore, Cristo si condanna alla croce. Attraverso di essa il regno di Dio, segretamente manifestato durante l'ultima cena, entra in questo mondo. E con quell'ingresso si trasforma in lotta e vittoria.
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