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«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» Gv 15,9-11 (Vangelo della liturgia del 22 maggio 2014). Riflessione personale. La dimensione umana dell’amore è dare per ricevere. Causa – effetto. Questo processo è come un escalation che sembra incontrollabile. Lo comprendiamo dal fatto che dopo il dare non subentra la gioia, ma l’aspettativa del compenso e più diamo più aumenta la frustrazione del non avere riconoscimenti, congratulazioni, apprezzamenti… Perché non riusciamo ad amare nella dimensione divina? Perché non riusciamo a staccare questa coda di desiderio che resta appiccicata a noi? Perché non siamo passati dalla morte alla vita. Difatti non amiamo i fratelli: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,14). Questo perché non siamo morti al peccato: il desiderio di possedere ciò che non si ha. «Gesù detesta il male, ma perché ama il malato. Noi invece, quando detestiamo il malato, perché amiamo il male. Gesù odia il peccato e predilige i peccatori. Noi invece odiamo i peccatori perché ancora siamo schiavi del peccato» (Silvano Fausti) Il nostro dare nella dimensione divina, agape, è un dono di Dio, sempre. È un regalo per chi lo riceve, ma in particolare per chi lo offre. È il giusto alimento, adesso, per chi lo compie. Il rischio è che lo trasformiamo in una merce di scambio, ti do per ricevere e così non è più dono di Dio a due fratelli, ma un mio dono che reclama il pagamento. Così il dono di amare ci resta addosso e pesa più di una Croce sofferente, se non lo viviamo come Gesù Abbandonato. Difatti, mentre la sofferenza non rischio di desiderarla perché non mi piace, il dono quasi sempre contiene una buona parte di piacere. Come si fa quindi a realizzarlo nella dimensione divina? Questo dono in maniera divina va vissuto come Gesù ha donato se stesso, abbandonandosi al Padre: «Dopo aver preso l'aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Dunque, prima di amare e nell’amare, bisogna fare l’esame del fuoco: sono disposto a dare la vita, rinunciare in questo momento: a questa cosa, al risultato di questo impegno, al mio tornaconto? L’avvolgere ogni nostro dono con questo esame d’amore, fa si che copriamo tutto con l’Amore, come dice San Paolo nell’inno alla carità: «La carità tutto scusa (copre)» (1Cor 13,7). Se non si supera questa prova, chiediamo a Gesù di metterci del Suo e diamo, come viene viene. L’aver verificato il nostro stato di salute “agapico” ed aver ricorso con sincerità di cuore al “Dottore”, questo ci fa rimanere nel suo amore. Esperienza personale è che mentre riflettevo e ripensavo alla Parola del Vangelo del giorno, Gv 15,9-11, guidando la moto, mi accorgevo che non reagivo a tutte le sollecitudini del traffico e delle manovre poco salutari dei compartecipanti al “gioco”. Anzi nasceva spontanea in me l’accoglienza, la pace e il farmi dietro ad ognuno. Questo brano del Vangelo presente nella Messa sta in mezzo a due giorni: nel giorno precedente nella Messa si proclama il brano di Gv 15,1-7 e nel giorno successivo il brano di Gv 15,12-17. Nel giorno precedente Gesù ci ha detto:
«Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» Rimanere nella sua parola ci permette di chiedere allo Spirito Santo di agire in noi permettendoci di amare nella sua dimensione e quindi arrivare al terzo giorno: osservare i comandamenti di Gesù, «che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» Gv 15,12b. In questo secondo giorno, ci viene detto di rimanere in questa dimensione divina d’Amare. E per riuscirci bisogna osservare i suoi comandamenti e, il suo comandamento è per l’appunto “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”. Quindi il punto è il “come”. Ciò che vizia la nostra azione d’amore e non la fa essere come l’azione di Gesù è il desiderio di possedere ciò che non si ha, che nel migliore dei casi può sfociare nel desiderare la stima, il riconoscimento, il plauso…, la vana gloria. Allora il nostro rimanere nel Suo amore non è solo dono di Dio che comunque si riceve stando nella sua Parola, ma anche azione dell’uomo che cura i propri desideri che infettano il nostro cuore. Per cui ogni cosa che facciamo, santa che sia, risulta contaminata nell’intimo. Questa azione umana di sfrondare, in realtà, nella nostra libertà è azione di Dio. Gv 15,1-2 “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Dio ci dona la grazia di conoscere quali rami della nostra esistenza vanno tagliati, ma le forbici le abbiamo in mano noi. Siamo noi che dobbiamo decidere, chiedendo a Lui anche la forza di farlo ed anche questa ci viene se rimaniamo nella sua Parola.
Es 20,17«Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Mt 5,27 [commento di Silvano Fausti] «L’occhio cattura e mette nel cuore ciò che interessa; e al cuore interessa ciò che l’occhio cattura e gli mette dentro. Se il cuore di chi ama è un giardino cintato, pieno di delizie; un cuore non custodito è un giardino senza recinto e devastato: se ne pasce ogni animale selvatico.»
Il primo che dobbiamo amare, perché prioritario, siamo noi stessi. Il punto è: ci amiamo nei bisogni o nei piaceri? L’atto d’amore supremo che possiamo fare è: tenere pulito il nostro giardino. «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Lc 6, 40 Solo così siamo liberi, senza spine né sassi, per rimanere in questa dimensione divina d’Amare, abbandonandoci al Padre ed aperti a qualsiasi frutto esso porti, anche la GIOIA. In realtà il più grande dono che Dio ci da per offrirlo agli altri siamo noi stessi che donandoci come Gesù, fino a dare la vita, diveniamo frutto di Gioia per noi e per gli altri. L’educarsi a tenere a bada i desideri, Gesù ce lo mostra nei quaranta giorni nel deserto dove satana lo tenta, come tentò Adamo ed Eva nell’Eden, nel vivere le cose del mondo al modo di possederle. Quelle stesse cose che Gesù ha vissuto nei tre anni successivi a mò di Agape: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Gesù non ha rifiutato feste e banchetti, popolarità e gloria, ma tutto lo ha vissuto nell’ottica del dare e nella misura della Croce. Dal possedere le cose del mondo accade che siamo posseduti dal mondo. Gv 17, 11a, 15-17 “Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo,[…] Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Ripensando ai cinquant’anni di buio di S. Madre Teresa di Calcutta, credo che sia stato un dono grande di Dio a questa piccola creatura, in quanto ha amato Dio e l’uomo in modo assolutamente agapico, senza alcuna soddisfazione spirituale da parte di Dio. Così come è successo a S. Teresina del Bambino Gesù, dal momento che è entrata in convento. Sono riuscite a restare nell’Amore Vero quello senza contraccambio, a differenza mia che siccome nell’amare Dio e l’uomo non riesco ad incontrarLo nella gioia e nelle consolazioni, allora mi stanco e mi posso permettere qualche pausa nell’amare e, guarda caso dove cerco ristoro? Nei relax distraenti, in tutto ciò che mi da soddisfazione materiale e piacere: passioni, curiosità e apprensioni. Queste pause non fanno altro che ricontaminare il nostro giardino con le spine e i sassi e, quando andiamo alla Parola il Seminatore che getta il seme trova il campo incapace di trattenerlo e farlo maturare in profondità – restare nella sua Parola -, per dare frutto = la gioia. Così non ci rimane che ricominciare, tanto Lui ha pazienza nell’Amore, non come me. L’Amare di Dio è continuare ad aspettarmi anche se non mi vede arrivare sulla strada dell’Amore, la Sua consolazione. Anche se si sta in uno stato di grazia superlativa, come sul monte Tabor davanti alla trasfigurazione di Gesù con Mosè ed Elia dinanzi, essa si può viverla possedendola, "Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!" (Mc 9, 5) e … chi se visto se visto! Gesù vive tutto nella proiezione di salvare tutti, di fatti va deciso verso Gerusalemme con il desiderio di dare salvezza e di avere tutta l’umanità per il Padre. Ecco, come dice Papa Benedetto XVI, questo è il solo eros che ha Dio, quello di averci, nella nostra libertà, a tutti i costi, con il perdono. Quindi come si vive nell’agape? Basta non vivere tutto nella dimensione del possesso, farsi l’esame del fuoco per ogni azione, specialmente mentale: non desiderare, non immaginare, non possedere, non decidere per il piacere o per un tornaconto. A questo punto abbiamo fatto tutto, il resto è dono di Dio. Come il frutto dell’Amore è la gioia così il frutto del possedere è la paura e l’odio, appena finisce il primo momento del piacere desolante in quanto egoistico ed individualista. Infatti, è al momento che mangiarono del frutto che Adamo ed Eva ebbero paura e l’uno accusò l’altra. “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.” Gn 3,7. «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato» Gn 13,12 «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura» Gn 13,10. Anche l’atto intimo di amore tra un uomo e una donna se realizzato nel possedere e non nel donarsi, rende i due distanti e insoddisfatti dentro, anche se sono marito e moglie. Se non si cerca di vivere ordinariamente nel non possedere, come ci si può donare reciprocamente nell’intimo? Il modo di agire come possesso, anche per una cosa banale, comunque ci contamina e ci rende un po’ meno liberi di amare come Gesù, in tutti i settori, tantomeno nel dono intimo e totale di se. Rientrare in noi in profondità e nella verità, raccogliere tutti i pezzi che riusciamo a trovare. Una volta andati in profondità con Dio, abbiamo toccato tutto anche ciò che non ci sovviene, poiché quel che conta è toccare la nostra anima non tanto gli errori commessi. A questo punto possiamo Riconciliarci con Dio nella Chiesa e quindi anche con l’umanità. Ora siamo di nuovo liberi di passeggiare nell’Amore. Quindi il riconciliarci non è tanto il chiedere il perdono dei peccati, ma il riconoscere di essere entrati nell’agire dalla porta sbagliata e chiediamo ora a Dio di voler rientrare dalla porta giusta, quella Sua. «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Gv 10,1-2 Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Gv 10,9-10. Le pecore, l’umanità, lo riconoscono se uno viene con la brama nel cuore del prendere e possedere. Tanto più i fratelli che condividono l’impegno nel camminare sulla Via di Gesù, i quali nell’amore reciproco – carità – ci aiutano a rientrare dalla porta giusta. Anche il rimprovero poco caritatevole è utile allo scopo, basta superare la spigolatura, comunque resta che se ci viene fatto presente vuol dire che emerge e quindi ringraziamo Dio senza stare a vedere come ci viene detto. Fabrizio Fiorenza
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