RITIRI SPIRITUALI ANNO 2009/2010

INDICE DEI RITIRI ANNO 2009/2010

Settembre 2009

Il Vangelo di Luca          

Ottobre 2009

Luca l’ Evangelista dei peccatori       

Novembre 2009

Luca l’ Evangelista  che valorizza la donna  

Dicembre 2009

Luca l’ Evangelista  dei poveri       

Gennaio 2010

Luca L’ Evangelista della mitezza     

Febbraio 2010 Il tempo liturgico della Quaresima  
Marzo 2010 Il Regno  
Aprile 2010 Il sacerdozio regale e profetico del popolo santo di Dio  

 

Settembre 2009 – Il Vangelo di Luca

1. L'AUTORE: SAN LUCA

 

Di Lc sappiamo poco, ma, con quanto ci è possibile raccogliere dalla sua opera e da scritti extra biblici, riusciamo a tracciarne un probabile essenziale profilo biografico. Il prologo antimarcionita (sec. II-III) così dice:

 

«Luca, un siro di Antiochia, di professione medico, discepolo degli Apostoli, seguì Paolo fino alla sua morte. Servì senza biasimo il Signore; non prese moglie né ebbe figli. Morì all'età di 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo. Essendo già stati scritti i Vangeli di Matteo in Giudea [Mt aramaico scomparso] e di Marco in Italia, mosso dallo Spirito Santo scrisse questo Vangelo nelle regioni dell'Acaia… gli era sembrato necessario esporre per i fedeli della Grecia il racconto con somma diligenza».

 

Dunque un pagano della Siria, nativo di Antiochia, colto e medico, probabilmente già divenuto proselito ebreo; l'attaccamento a Paolo ci può far pensare che fu convertito al cristianesimo dal grande apostolo tra il 40 e il 44, gli anni della fervida attività paolina ad Antiochia. Nel secondo e terzo viaggio missionario di Paolo i passi «noi» ci mostrano Lc accanto a Paolo; e così nel viaggio verso Roma. le lettere paoline ci testimoniano la sua fedele presenza presso Paolo nelle due prigionie (Col 4,24; Fm 24): commovente è la testimonianza di Paolo resa alla vigilia del martirio quando tutti o per necessità di apostolato, o per debolezza e paura, l'hanno abbandonato:

 

1Tm 4 [9]Cerca di venire presto da me, [10]perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. [11]Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero. [12]Ho inviato Tichico a Efeso. [13]Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene.

 

Dopo la morte di Paolo, Lc tornò in Oriente ove, probabilmente in Acaia, scrisse la sua opera, morendo in Beozia in una data imprecisata, intorno all'anno 100. Nulla sappiamo dei suoi resti mortali; molte chiese in Italia gareggiavano nel sostenere di custodirne il suo corpo. La sua festa si celebra il 18 ottobre. Suggestiva la sua raffigurazione nel cimitero di Commodilla a Roma (sec. VII), dove è raffigurato con la testa nimbata, la veste bianca, il rotolo del Vangelo e la borsa con gli strumenti chirurgici.

 

Dagli scritti di Lc appare qualche segno della sua professione:

 

•     ricorda l'ematoidrosi (sudor di sangue)

 

•     si esprime con indulgenza con i medici (l'emorroissa):

 

Mc 5,26: «… e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando»

 

Lc 8,43: «Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire».

 

•     indica con maggiore esattezza i fenomeni patologici; annota da quanto tempo duri la malattia; distingue con più cura le malattie vere e proprie dalle possessioni diaboliche…

 

Una tardiva tradizione ci parla di S. Luca come pittore, sembra che questo non abbia fondamento storico.

 

Diversi sono i titoli dati dagli studiosi al suo Vangelo: Vangelo dello Spirito Santo; dei semplici, dei poveri e dei disperati; dei peccatori, della salvezza universale, della misericordia di Dio; della mansuetudine di Cristo (Dante Alighieri); della radicalità della sequela di Gesù; della preghiera; dell'oggi; della gioia; della Madonna; della donna.

 

2. GLI SCRITTI LUCANI: due parti di un'unica opera.

 

Vangelo e Atti formano un'unica opera, lo dimostrano la lingua e lo stile identici, l'unitario quadro geografico (nel Vangelo tutto tende verso Gerusalemme, negli Atti il movimento parte da Gerusalem-

 

me per giungere agli estremi confini della Terra), il piano teologico e, specialmente, la dedica dell'opera a Teofilo di Lc 1,1 ripresa in At 1,1-2.

 

Composto verso l'80 probabilmente in Acaia.

 

Le fonti: Mc e altre fonti, Lc ha 548 versetti propri: vangelo dell'infanzia, piccola e grande inserzione (6,20-8,3 e 9,51-18,14) e anche nel racconto della morte e resurrezione. Appartengono a questo materiale proprio di Lc alcune tra le pagine più belle e famose del Vangelo: le parabole del figliol prodigo, del ricco epulone e del povero Lazzaro; gli episodi di Zaccheo, del ladrone pentito, della resurrezione del figlio unico della vedova di Nain, i Vangeli dell'infanzia e diversi detti di Gesù.

 

Come metodo redazionale Lc ha usato lo schema di Mc del viaggio a Gerusalemme: Galilea – viaggio – Gerusalemme. Tra gli evangelisti Lc ci appare come il più storico: leggi il prologo del suo Vangelo. Molti sono i suoi riferimenti cronologici alla storia generale:

 

Lc 1[5]Al tempo di Erode, re della Giudea, c'era un sacerdote chiamato Zaccaria / 2,[1]In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. [2]Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio / 3,[1]Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, [2]sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. [3]Ed egli percorse tutta la regione del Giordano.

 

Ma anche lui come gli altri, non scrive per pura storia, ma per annunziare un «vangelo» di salvezza. Non si cerchi perciò neppure in Lc un'accurata cronologia dei singoli fatti, né la loro esatta collocazione topografica.

 

3. LO SCOPO DI LUCA: il suo messaggio teologico e il piano strutturale dell'opera.

 

Lc scrisse circa quindici anni dopo Mc, in un momento di grande disagio dei cristiani: era scomparsa l'attesa del ritorno imminente del Cristo. Gerusalemme era stata distrutta, ma il regno non era ancora venuto. Lc vuole togliere dall'animo dei cristiani un tale disagio dando loro, con grande chiarezza, una più articolata e profonda visione teologica del «piano» divino di salvezza. Ecco le principali tappe:

 

•     Il tempo dell'AT o della profezia: «La legge e i profeti fino a Giovanni il Battista (16,16). È il tempo della preparazione che termina con Giovanni il Battista, e per questo Lc segnala con grande solennità (3,1-2) l'inizio dell'attività del Precursore.

 

•     Il tempo di Gesù: «La Legge e i profeti fino a Giovanni, da allora in poi viene annunciato il Regno di Dio» (16,16). È il tempo del compimento; è l'«oggi» della salvezza. Per tutti: l'azione di Gesù nella sua vita pubblica fu rivolta solo a Israele, ma il Risorto darà il comando di andare a tutti, spazialmente fino ai confini della terra e temporalmente fino alla parusia (= giorno del ritorno glorioso del Signore).

 

•     Il tempo della Chiesa. L'Ascensione, significativamente narrata due volte da Lc, una alla fine del vangelo e una all'inizio degli Atti, fa come spartiacque tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. È  da meditare profondamente il rimprovero rivolto dagli angeli agli apostoli dopo l'Ascensione: «Perché state a guardare in cielo?». Dunque il tempo che si apre con l'Ascensione non è il tempo dell'attesa passiva e disillusa, ma dell'attesa operosa; non bisogna guardare in cielo, ma dare inizio alla missione ecclesiale che deve raggiungere i confini del mondo…

 

Tutto preso dalla sua visione teologica, Lc, che vive nel tempo della Chiesa e che ama la Chiesa con tutte le sue forze, non può non preoccuparsi di notare la presenza del peccato e dei peccatori nella stessa Chiesa. Insiste così spesso sulla conversione, sulla misericordia, sul perdono. Denuncia più di ogni altro l'indebolimento della fede: Lc 18 [8]“…Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?". Lc più che rimproverare, incoraggia; con delicatezza infinita, ma insieme con grande fermezza egli va incontro alla sua Chiesa per illuminarla, guidarla e incoraggiarla. Gesù ama i peccatori e li cerca. Gesù ama la sua Chiesa, benché peccatrice. Ciò che conta per lui è che essa riconosca il suo peccato e viva la tensione verso la liberazione, verso la santità, in sincera ricerca di comunione con lui.

 

Lc non si illude, è realista, è un medico; ma fa di tutto perché la sua Chiesa ritrovi la tensione escatologica (=verso l’al di là), lo slancio missionario e la generosità nella fedeltà al Vangelo; ritrovi infine, la gioiosa fiducia di fronte alla storia. Lc mette in guardia, più di ogni altro evangelista, dai pericoli dei beni mondani; con un radicalismo assoluto, inculca l'amore per i bisognosi, propone il distacco, calca più l'ascolto della parola che l'annuncio, vuole che si preghi senza stancarsi mai. Tutti gli studiosi riconoscono che Lc trasmette un richiamo pressante a una religiosità più profonda. Lc è davvero l'evangelista dell'anima.

 

4. LA STRUTTURA DELL’OPERA LUCANA

 

Se si vuole capire Lc bisogna leggere e meditare l’intera sua opera (Vangelo + Atti) e non fermarsi alla sola prima parte (Vangelo). Infatti la strutturazione delle due parti ha identico andamento anche se in senso inverso: nel Vangelo Gesù dalla Galilea mediante il lungo viaggio, giunge a Gerusalemme; negli Atti la Chiesa Apostolica parte da Gerusalemme e giunge ai confini della terra.

 

Lc ci tiene così tanto a questo schema strutturale che, come non menziona esplicitamente alcuna sortita di Gesù dalla Galilea, così non parla di apparizioni del Risorto ai suoi discepoli lontano da Gerusalemme.

 

Gerusalemme è in Lc la città ove le profezie trovano compimento (2,38; 9,31; 13,33; 18,31; 19,11); la città ove hanno luogo i supremi fatti salvifici: la passione, la morte e la risurrezione; la città ove gli Apostoli ricevono lo Spirito Santo e da dove partono per portare la salvezza ai pagani.

 

È straordinario notare quanto Lc abbia tenuto a mostrare il parallelismo tra Gesù che va a Gerusalemme per compiere la nostra salvezza e la Chiesa che va a tutte le genti per portare loro questa salvezza: come il viaggio di Gesù verso Gerusalemme è tre volte richiamato nel Vangelo, così negli Atti ci sono tre richiami al viaggio di Paolo verso Roma.

 

4. PROPOSTA DI RIFLESSIONE PER LA PREGHIERA PERSONALE

 

Abbiamo visto come  Lc organizzi tutto il materiale del suo Vangelo attorno all’icona del «VIAGGIO»: viaggio di Gesù da Nazareth a Gerusalemme, viaggio della Chiesa da Gerusalemme ai confini della terra, fino all’ultimo uomo sperduto delle foreste australiane.

 

È molto significativo anche il fatto che Lc parli del messaggio evangelico come di una «via», un «cammino». Noi, purtroppo, spesso abbiamo tradotto questo termine lucano con «dottrina» (cf At 9,2; 13,12; 19,9; 19,23; At 22,4; 24,14; 24,22) e abbiamo percepito il Vangelo come una dottrina, cioè come un insieme di valori a cui aderire e non tanto come un cammino da seguire dietro al Maestro.

 

La nostra vita personale stessa è un «viaggio» che è iniziato tanto tempo fa; veramente è iniziato oltre il tempo, quando il Padre ci ha pensati:

 

Ef 1,3-5: Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo.

 

Noi, in quanto cristiani, siamo innanzi tutto e prima di tutto discepoli di un Maestro itinerante. Egli vuole condurci al Padre: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Il Padre stesso ci attira verso il Figlio con il suo Santo Spirito (cf Gv 6,44) invitandoci ad ascoltarLo e seguirLo: «Questi è il Figlio, l’eletto. Ascoltatelo!» (Lc 9,35).

 

Possono essere diversi poi le motivazioni che ci hanno spinto a seguirLo, come le folle che lo seguivano nel suo pellegrinaggio terreno, ma Gesù non desidera una sequela emotiva suscitata da un sentimento passeggero. Lui desidera una sequela voluta e decisa, forte, appassionata; caratteristiche che, prima di tutto, sono state le caratteristiche del suo essere nostro Battistrada. Per questo Gesù, quando si vide seguito da una numerosa folla, ci racconta Lc che:

 

 «Egli si voltò e disse: "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» – Lc 14,25-27

 

Luca, l’evangelista della misericordia e della compassione di Gesù, è anche l’evangelista che più ha messo in risalto le esigenze della di Lui sequela e la necessità di un’opzione fondamentale per Gesù, una decisione soppesata, voluta, determinata e appassionata. Sì, perché se non c’è la passione del cuore, sarebbe una sequela ancora triste, brontolata, come gli ebrei nel deserto che seguivano Mosè, ma nel loro cuore desideravano di mangiare della carne e anche «i pesci che mangiavano in Egitto gratuitamente, i cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l'aglio» (Nm 11,5) e quella manna, dono celeste dell’amore del Padre, non procurava loro più nessun entusiasmo nel mangiarla, ma si erano stancati di quel cibo e desideravano altri cibi.

 

Gesù perciò ferma le numerose persone che lo seguono e le invita a riflettere sul quel che stanno facendo, provocandole ad una scelta precisa e soppesata.

 

Qualche capitolo prima di questo intervento di Gesù verso la folla che lo seguiva, Lc ci aveva raccontato come Lui, Gesù, avesse volto decisamente le spalle alla Samaria per dirigersi «decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51); in realtà la traduzione più esatta dovrebbe essere «si diresse a muso duro verso Gerusalemme». Compiuta con grande entusiasmo di folla la sua predicazione nella Galilea, ora Gesù si dirige “a muso duro” verso Gerusalemme dove sa, sa bene cosa l’aspetta… l’aspetta una Croce! Poteva mai sorridere iniziando il suo viaggio verso quella Croce? Poteva mai cantare allegramente andando verso di essa? E così si volge decisamente verso Gerusalemme, “a viso duro” con il cuore traboccante d’amore per ciascuno di noi; in quello sguardo duro c’è tutta la concretezza dell’amore di Gesù per noi, un amore concreto, tangibile, fattivo, fermo, deciso, fedele perché appunto frutto di una decisione precisa, soppesata, voluta e offerta. L’amore necessita di questa dimensione per essere autentico e vero e non falso, effimero, evanescente. Per l’amore che ci portava, Gesù si diresse a “viso duro” incontro alla morte desiderando ardentemente (cf Lc 22,15) di regalarci la vita. Chiunque vuole imparare l’amore vero deve imparare da Gesù quel “viso duro” senza il quale l’amore svanisce alla prima piccola prova. Chi, come Lui, vuole amare deve essere deciso, sapere quello che vuole e quello che l’aspetta, l’aspetta la morte; infatti non si può amare senza morire per chi si ama; chi vuole a tutti i costi vivere e insieme vuole anche amare non imparerà mai ad amare!

 

Così, come Lui andò verso la sua Passione per noi, con amore e per amore, così desidererebbe essere seguito da noi, con amore e per amore, amore appassionato, amore ardente, amore entusiastico.

 

Ecco, detto questo, fermandoci in preghiera davanti a Lui che così tanto e troppo ci ha amato, interroghiamo il nostro cuore per muoverlo ad un amore più grande per Lui. Davanti al grande «viaggio» di Gesù per noi, riflettiamo sul piccolo «viaggio» nostro per Lui.

 

Sarebbe bello nella nostra preghiera rivedere la nostra prima infanzia, la nostra adolescenza, la nostra maturità e la nostra situazione attuale, interrogandoci su dove eravamo indirizzati, quali erano le nostre mete che ci proponevamo di raggiungere e quando in questo viaggio è apparso Gesù come persona da seguire, come persona che non solo ci guida in questo viaggio, ma anche ci accompagna come compagno di viaggio che condivide la nostra storia nell’intimo del nostro cuore, dove gioisce per le nostre gioie e piange con le nostre stesse lacrime.

 

O forse ancora non è proprio così, e io sono qui per questo: per animarmi ad una fede più profonda, una speranza più viva, un amore più fervoroso per Lui che è la nostra «Via, Verità e Vita» (Gv 14,6), Via da seguire, Verità in cui credere, Vita di cui vivere.

 

[Torna all'indice]

 

Ottobre 2009 –  Luca, l'Evangelista dei poveri peccatori

 

 

Nei nostri prossimi quattro ritiri – piacendo a Dio – cercheremo di riflettere su quattro caratteristiche particolari che emergono dal Vangelo di Luca. Queste note peculiari lucane si possono riscontrare dall’analisi del materiale proprio di Luca che, cioè, non è stato riportato anche dagli altri evangelisti, e dai cambiamenti che Luca apporta al materiale comune anche ad altri evangelisti. Da questo studio emergono quattro note caratteristiche lucane che, insieme, fanno sì che egli possa essere definito «l’evangelista della mansuetudine di Gesù Cristo»:

 

1)      Lc, più degli altri evangelisti, mette in risalto l'amore di Dio e di Gesù per i peccatori.

 

2)      Lc, più degli altri evangelisti mette in risalto l'amore di Gesù per i poveri, i miseri, i diseredati della vita.

 

3)      Lc, più degli altri evangelisti, afferma e valorizza la dignità umana e cristiana della donna.

 

4)      Lc, più degli altri evangelisti, manifesta soavità, gentilezza, tolleranza e squisita bontà d'animo.

 

Dedichiamo questo nostro ritiro alla prima nota tipica di Lc: l’amore di Gesù per i poveri peccatori. Lc delinea la figura di Gesù come quella dell'amico e redentore dei poveri peccatori.

 

Lc fa sfilare davanti a noi una variegata serie di peccatori, e tutti, a contatto con Gesù, ritrovano la pace, la via del bene e di Dio.

 

 

 

 

A. Una prostituta, peccatrice della lussuria (7,36-50)

 

Tutti conosciamo l’episodio: Gesù è invitato a casa di un fariseo, un certo Simone, e mentre sta a mensa con lui e altri farisei, entra questa donna che in silenzio «si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato». Simone e gli altri farisei, conoscendo quella donna come una famosa «peccatrice», non capivano come potesse un uomo di Dio lasciarsi toccare pubblicamente in quel modo da una donna simile. Una domanda qui io pongo a me e a voi: Chi di noi non avrebbe pensato la stessa cosa di questi farisei? Gesù conoscendo lo scandalo suscitato risponde a quei giudizi negativi con la parabola dei due debitori: se una persona si vede condonato un debito esiguo ed un’altra un debito esorbitante, enorme, sarà spinta ad un amore più grande di chi si vede condonato un piccolo debito. Di fatto i grandi peccatori come questa peccatrice, sono stati e sono quelli che sembrano più fervorosi, più innamorati, più grati al Signore. Questo tema faceva un po’ indispettire s. Teresina  di Lisieux:

 

119. […] Ah, lo sento, Gesù mi sapeva troppo debole per espormi alla tentazione. Forse mi sarei lasciata bruciare tutta dalla luce ingannatrice se l'avessi vista brillare ai miei occhi… Non è stato così, ho incontrato solamente amarezza là dove anime più forti incontrano la gioia e se ne distaccano per fedeltà. Io non ho dunque alcun merito per non essermi abbandonata all'amore delle creature, poiché da esso fui preservata per grande misericordia del Signore! Riconosco che senza lui avrei potuto cadere in basso quanto santa Maddalena, e la profonda parola di Nostro Signore a Simone mi echeggia nell'anima con grande dolcezza.

 

120 – Lo so, «colui al quale si rimette meno, ama meno» ma so anche che Gesù mi ha rimesso più che a santa Maddalena perché mi ha rimesso in anticipo, impedendomi di cadere. Ah, come vorrei poter chiarire ciò che sento! Ecco un esempio che spiegherà il mio pensiero. Suppongo che il figlio d'un medico abile incontri sul suo cammino una pietra che lo faccia cadere; cadendo, egli si rompe un arto, e subito il padre corre a lui, lo rialza con amore, cura le ferite impegnando tutte le risorse della sua arte, e ben presto il figlio completamente guarito gli dimostra la propria riconoscenza. Certamente questo figlio ha ben ragione d'amare suo padre! Ma farò ancora un'altra ipotesi. Il padre, avendo saputo che sulla strada di suo figlio si trova una pietra, si affretta, va innanzi a lui, la rimuove senza che nessuno lo veda. Certamente questo figlio, oggetto della sua tenerezza previdente, non sapendo la sventura dalla quale è liberato per mezzo di suo padre, non testimonierà a lui la propria riconoscenza e l'amerà meno che se fosse stato guarito da lui. Ma se viene a conoscere il pericolo al quale è stato sottratto, non amerà di più suo padre? Ebbene, io sono quel figlio, oggetto dell'amore previdente di un Padre il quale non ha mandato il Verbo a riscattare i giusti bensì i peccatori. Vuole che io lo ami perché mi ha rimesso non già molto, bensì tutto. Non ha atteso che io lo amassi molto, come santa Maddalena, ma ha voluto che io sappia com'egli mi ha amata d'un amore d'ineffabile previdenza, affinché ora io ami lui alla follia! Ho inteso dire che non si è mai incontrata un'anima pura la quale ami più di un'anima penitente; ah! come vorrei smentire questa parola! – Storia di un’anima, Manoscritto “A”.

 

 

B. Zaccheo, il peccatore del denaro e degli affari (19,1-10)

 

Pagina lucana di inestimabile ricchezza spirituale. Nell’incontro di Gesù con Zaccheo si può ritrovare ogni uomo che ha cercato e cerca il Salvatore del mondo. Zaccheo sale su quel sicomoro con un grande peso di vuoto e di insoddisfazione che gli attanaglia il cuore e sale sul sicomoro della speranza. La scena ha qualche analogia con Adamo che si nasconde per vergogna nel paradiso terrestre (cf Gen 3,8):  Adamo  si nasconde nel cespuglio  per  vergo-

 

gna, Zaccheo si nasconde tra le fronde per la speranza che porta nel cuore. Entrambi vengono cercati e chiamati  per nome da Dio: «Adamo dove sei?» (cf Gen 3,8), «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5). Zaccheo scende dal sicomoro trasformato dallo  sguardo d’amore  di  Gesù  e  dall’aver scoperto il suo vero volto nascosto in quel nome con cui lo chiamava dall’eternità il buon Dio e che lui ancora non conosceva. Sentendosi chiamato per nome dall’Amore, scopre la propria vera identità, tutta quella dignità, bellezza e santità con cui era stato pensato dal Padre, e s’incammina con Gesù verso casa sua; ora è veramente casa sua! Il viaggio di Zaccheo, dall’albero a casa sua con Gesù a fianco, è simbolo del viaggio della preghiera con cui ogni uomo, con Gesù, scende nella verità di se stesso, del proprio cuore: la nostra casa, la nostra dimora disabitata è il nostro cuore. Finché non troviamo Gesù, non troviamo neanche il nostro cuore, perché è solo Gesù che ci può introdurre nel nostro cuore che è la nostra casa. Senza Gesù viviamo fuori dal nostro cuore, fuori di noi stessi, e il nostro cuore si disperde in tante cose a cui si attacca senza pace e soddisfazione «perché –  come dice S. Agostino (Le Confessioni, I, 1) – ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te».  Luca annota bene come Zaccheo «in fretta scese e lo accolse pieno di gioia»; in questa fretta e in questa gioia possiamo vedere una caratteristica che emerge nell’opera lucana: l’incontro con Gesù produce una gioia che porta fretta, fretta di annunciarlo, di farlo conoscere, di testimoniarlo e così questo binomio risalta:

 

§  Nella Vergine Maria che in fretta va da sua cugina Elisabetta e fa saltare di gioia il Battista nel seno della sua mamma (1,39ss).

 

§  Nei pastori che ricevono l’annuncio di una grande gioia e vanno in fretta alla grotta (2,8ss).

 

§  Nei due di Emmaus che senza indugio e quindi in fretta tornano a Gerusalemme dopo che avevano capito che quel Viandante sconosciuto, che aveva riscaldato d’amore il loro cuore lungo il cammino ed era scomparso nello spezzare il pane per loro, era Gesù, il Risorto  (24,13ss).

 

§  Nei primi discepoli che tornano a Gerusalemme dopo l’Ascensione del suo Signore; Luca non parla espressamente di fretta in questo ritorno a Gerusalemme, ma dice che «essi tornarono a Gerusalemme con grande gioia» (Lc 24,52), lasciando però intuire un andare non certamente svogliato e lento, quanto dinamico e entusiastico. Nel racconto parallelo che Luca fa dell’Ascensione posto all’inizio degli Atti, ci mostra però una Chiesa che indugia a correre verso Gerusalemme e che se ne sta a guardare il cielo; sarà l’invito-rimprovero degli angeli a spingere i primi discepoli a tornare a Gerusalemme, quasi volessero rimanere lì, imbambolati, a guardare il cielo:

 

At 1 [9]Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. [10]E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n'andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: [11]"Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo".

 

Possiamo leggere nell’insieme di questi due racconti lucani dell’Ascensione, il messaggio di Luca alla comunità a lui contemporanea per la quale scrive il suo Vangelo con l’intento di ridestare in essa la speranza e l’entusiasmo smorto per la delusione del mancato ritorno del Risorto.

 

Tornando al nostro amico Zaccheo, bisogna che non ci sfugga anche l’altra annotazione lucana riguardo il cammino di Zaccheo insieme a Gesù dal sicomoro a casa sua: «Vedendo ciò, – dice Luca –  tutti mormoravano: “È andato ad alloggiare da un peccatore!”» (19,7). Gesù risponderà a queste mormorazioni spiegando qual è la sua missione: «Cercare e a salvare ciò che era perduto» (19,10), riprendendo così quell’insegnamento dato in occasione di un altro pranzo a casa di un altro peccatore, Levi o Matteo, pranzo che aveva suscitato le mormorazioni dei farisei e degli scribi, alle quali Gesù rispose con parole simili a queste a casa di Zaccheo: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi» (5,31-32). Gesù è il Salvatore, il suo stesso nome richiama questa verità, come ben spiega l’angelo a Giu-seppe: «Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù, egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». (Mt 1,21). Bisogna sentire il bisogno di essere salvati per cercarlo, come bisogna sentire il bisogno di essere guariti per cercare un medico, come bisogna sentirsi prigioniero per cercare qualcuno che ci liberi, bisogna muoversi a tentoni nelle tenebre per cercare la luce. Gesù è venuto proprio per questo, per salvarci, liberarci, guarirci, illuminarci offrendo a noi «un anno di grazia del Signore», cioè un tempo di misericordia di cui dobbiamo fare tesoro e non dobbiamo lasciare passare, se non vogliamo rimanere fuori dalla salvezza, dalla libertà, dalla guarigione, dalla luce:

 

Lc 4 [18]Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, [19]e predicare un anno di grazia del Signore.

 

 

C. Pietro, il peccatore della debolezza (22,54- 62)

 

Solo Luca ci ricorda lo sguardo di Gesù a Pietro dopo il rinnegamento e il pianto di quest’ultimo.

 

Lc 22 [56]Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: "Anche questi era con lui". [57]Ma egli negò dicendo: "Donna, non lo conosco!". [58]Poco dopo un altro lo vide e disse: "Anche tu sei di loro!". Ma Pietro rispose: "No, non lo sono!". [59]Passata circa un'ora, un altro insisteva: "In verità, anche questo era con lui; è anche lui un Galileo". [60]Ma Pietro disse: "O uomo, non so quello che dici". E in quell'istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. [61]Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro,  e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva det-

 

to: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". [62]E, uscito, pianse amaramente.

 

Occorre che comprendiamo bene la causa del rinnegamento di Pietro, egli infatti non rinnegò il suo Maestro per vigliaccheria, anche se apparentemente sembra così. Pietro era coraggioso e amava Gesù ed era pronto a morire per lui e anche gli altri Apostoli lo erano. Gli Apostoli erano consapevoli che quell’ultimo viaggio verso la Giudea significava per loro molto probabilmente la morte, come mette bene in evidenza Giovanni nel racconto della risurrezione di Lazzaro:

 

Gv 11 [1]Era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. [2]Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. [3]Le sorelle mandarono dunque a dirgli: "Signore, ecco, il tuo amico è malato". [4]All'udire questo, Gesù disse: "Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato". [5]Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro. [6]Quand'ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava. [7]Poi, disse ai discepoli: "Andiamo di nuovo in Giudea!". [8]I discepoli gli dissero: "Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?". [9]Gesù rispose: "Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; [10]ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce". [11]Così parlò e poi soggiunse loro: "Il nostro amico Lazzaro s'è addormentato; ma io vado a svegliarlo". [12]Gli dissero allora i discepoli: "Signore, se s'è addormentato, guarirà". [13]Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno. [14]Allora Gesù disse loro apertamente: "Lazzaro è morto [15]e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!". [16]Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: "Andiamo anche noi a morire con lui!".

 

Che gli Apostoli fossero ormai pronti a morire per Gesù, lo dimostra anche il fatto che nell’ora del tradimento di Giuda, presero delle spade (22,38) per difendere il loro Gesù e lo fecero, amputando

 

anche un orecchio a chi cercava di mettere le mani addosso al loro Maestro (22,50). Luca non ci dice quale degli Apostoli prese la spada e reagì con violenza, ma riferisce genericamente che presero le spade e uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote, ma dall’evangelista Giovanni sappiamo bene che chi prese la spada e chi la usò senza paura fu proprio lui, il povero Pietro che poco dopo lo rinnegherà di fronte alle accuse di una servetta:

 

Gv 18,10: Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco.

 

Gv 18,26: Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l'orecchio, disse: "Non ti ho forse visto con lui nel giardino?".

 

Cosa spinse dunque il coraggioso Pietro al vile rinnegamento del suo Gesù, la paura di morire? Propriamente non fu la semplice paura di morire che lo spinse a rinnegarlo, ma la paura di morire così, morire come un agnello mansueto, morire umiliato, morire senza gloria, morire con infamia, morire come un delinquente, questa morte no, non era ancora pronto a subirla come dimostrano anche i suoi rimproveri al Maestro quando Questi parlò della sua prossima morte infame, che spinsero Gesù ad ammonirlo pubblicamente e  stigmatizzarlo come satana (cf Mc 8,32-32). Pietro era pronto a morire per Lui e glielo disse pure convinto (cf Lc 22,33), ma non era pronto a morire umiliato, non era pronto a morire crocifisso e a seguire un Maestro crocifisso. Questo fu il peccato di Pietro, non fu peccato di semplice vigliaccheria di fronte alla morte, fu peccato di rifiuto della croce, fu quindi peccato di superbia che lo portò a voltare le spalle al suo Gesù.

 

D. Il Buon Ladrone: il peccatore che ha sbagliato tutto (23,39-43)

 

Solo Luca ci ricorda il Buon Ladrone, mascalzone e ladro che muore rubando il paradiso; riconoscendo la giustizia della condanna ricevuta, si appella alla misericordia di Gesù. Egli è l’unico che in tutti i Vangeli si rivolge a Gesù senz’altro titolo che il suo nome stesso: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo Regno». Il primo Santo del paradiso è un ladro e il grande «Amico dei pubblicani e dei peccatori» (7,34) se lo porta con Sé.

 

 

C. Lc 15, la Trilogia della Misericordia: la pecora, la dramma e il figlio perduti

 

Non possiamo poi non ricordare, concludendo, le tre parabole della misericordia di Lc 15. La para-bola della dramma e del figlio perduti sono propri di Luca, mentre quella della pecora perduta è co-mune anche a Matteo (18,12-14), ma quest’altro evangelista la racconta  nel  contesto del discorso ecclesiale che Gesù rivolge ai suoi discepoli, mentre Luca la pone in un discorso diretto agli scribi e ai farisei che si credevano superiori ai pubblicani e ai peccatori. Capitolo di grande rivelazione, queste parabole mettono in evidenza l’amore del Padre che si svela nelle fatiche a cui si sottopone il Buon Pastore per la sua pecorella: una sola, eppure ne ha tante altre! Egli è veramente interessato ad ognuna di esse, ognuna ama di amore così esagerato che per ognuna ha mandato il suo Figlio a morire per ritrovarle! Amore che si svela nell’affannosa ricerca della donna afflitta per la sua dramma: siamo preziosi! Amore che, soprattutto, si rivela nelle guance bagnate di lacrime del papà buono che. riconoscendo da lontano il figliolo perso che ritorna a casa afflitto e spogliato dei beni e della propria dignità, gli corre incontro e fa grande festa per lui, una festa che gli scribi e i farisei, simboleggiati dal fratello grande che non vuole entrare, non possono capire! Tutta la rivelazione profetica del VT sulla misericordia divina, che ha saputo lasciarci pagine ineffabili, trova qui una pienezza e una perfezione insuperabile. L’esorbitante gioia del Padre e del cielo tutto, per ogni pecorella ritrovata, per ogni dramma riavuta e per ogni figlio perduto, trabocca con una incredibile potenza da questa ineffabile trilogia dell’amore divino. Il Vangelo di Luca è essenzialmente annuncio di questa gioia; la Chiesa collabora con Gesù per far conoscere questa gioia al mondo e perché il mondo, quel mondo che non conosce Dio (cf 1 Cor 1,21; 1 Gv 3,1) possa entrare in questa gioia e salvarsi!

 

[Torna all'indice]

 

Novembre 2009 –  Luca, l'Evangelista che valorizza la donna

 

 

Dedichiamo questo nostro ritiro ad un’altra nota tipica di Lc: affermazione e la valorizzazione della dignità umana e cristiana della donna.

 

La donna, poco apprezzata, se non disprezzata nel mondo pagano, poco considerata in pratica anche nel mondo giudaico, vede riconosciuta la sua piena dignità in Gesù; ed è Luca a illustrare con tanta attenzione questo importantissimo aspetto del Vangelo. Egli ci fa sfilare dinanzi una bella serie di figure femminili e ci scopre i tesori e le risorse dell’anima femminile.

 

• Maria la donna santa – Lc 1-2.

 

Sapremmo veramente poco di Maria se Luca non ci avesse lasciato questi due capitoli dell’infanzia di Gesù in cui parla di Lei, dipingendoci il volto bello della Tutta Bella con squisita finezza e sensibilità artistica.

 

All’Annunciazione ce la mostra nella sua semplicità e nel suo maturo e ponderato discernimento che si conclude con la sua totale disponibilità alla volontà del Padre pronunciando quel Fiat che anticiperà quello del suo Figlio Crocifisso. Portatrice del Dio in Lei umanato, corre dalla sua amica e cugina Elisabetta, il loro incontro è una danza di festa: esulta il Giovanni nel seno della mamma che profetizza gioiosamente la maternità divina di Maria: A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? (1,43). Come una donna, la prima, portò nel mondo la tristezza e la morte, così una Donna, la Nuova Donna, porta nel mondo la Vita e lo inonda di gioia.

 

La visita alla cugina Elisabetta sembra rimandare alla visita dell’arca dell’alleanza alla casa di Obed-Edom di Gat (cf 2Sam 6,11-13): come l’arca a casa di Obed-Edom, anche la Vergine Maria si ferma «tre mesi» (1,56) a casa di sua cugina e come l’entrata in Gerusalemme dell’arca è fatta in un’atmosfera di grande gioia, festa e danza, così la presenza del Figlio di Dio nel seno purissimo di Maria suscita la danza di Giovanni nel seno di Elisabetta che profetizza e Maria non può far a meno di esultare e ringraziare il suo Signore per tanta grazia ricevuta.

 

La grandezza di Maria sta nella sua piccolezza, nella sua umiltà, nella sua povertà guardata con ineffabile amore dal Padre. E così Maria canta il suo Magnificat al Padre per tutte quelle cose belle e grandi che Lui sta facendo in Lei.

 

Luca ci tiene poi a mettere in risalto come la Vergine Maria serbasse nel cuore in religioso silenzio gli eventi di cui era spettatrice e protagonista e che coinvolgevano la vita del suo divin Figlio e la sua. Per due volte egli ce la pone in questo atteggiamento, la prima dopo il racconto che fanno i pastori della visione degli angeli (2,19), la seconda dopo la risposta misteriosa di suo figlio adolescente che ritrova al tempio dopo tre giorni di smarrimento (2,51). In questa seconda circostanza, Luca mette in evidenza che Maria e Giuseppe non capirono, Maria dunque non capì, ma conservò quelle parole misteriose con spirito di umile fede e fiducia che lo Spirito un giorno gliele avrebbe fatte intendere. Come del resto farà con le parole che l’anziano Simeone pronunziò prendendo in braccio il suo Bambino divino quando lo presentò al tempio: « … e anche a te una spada trapasserà l’anima» (2,35).

 

• Elisabetta, l’anziana e austera madre del Battista – Lc 1,5-25; 1,39-80.

 

Elisabetta rappresenta un po’ tutte le mogli sante che vengono elogiate nella Scrittura (cf Pr 10,31ss). Maria andò in fretta da lei dopo l’annunciazione, l’angelo le aveva parlato della sua maternità miracolosa come segno della sua maternità divina, certamente quando Maria sentì Elisabetta dirle: A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Il suo cuore sarà esploso di gioia. Quel segreto che Lei non poteva neppure dire a Giuseppe, lo Spirito Santo l’aveva rivelato a  sua cugina. Quale consolazione, quale gioia per Maria sapere che Elisabetta sapeva, quale conforto nel portare nel cuore il suo segreto così pesante qual era la sua maternità divina. Quale conferma a quell’annuncio che l’aveva così turbata e al quale aveva aderito con tutta se stessa dopo un accorto e ponderato discernimento! E così Elisabetta diventa sostegno e conforto di Maria.

 

 

 

• Anna, l’anziana profetessa – Lc 2,36-38.

 

Rappresentante di tutte le vedove sante che dopo la morte del loro marito si sono donate totalmente alla preghiera e alla carità.

 

• Maria di Magdala, Giovanna moglie di Cusa, Susanna e molte altre – Lc 8,1-3.

 

Questo brano è molto importante ed è proprio di Luca. Esso ci informa che Gesù nelle sue attività missionarie era accompagnato, oltre che dai Dodici, anche da alcune donne: Maria di Magdala, liberata dal possesso demoniaco, Giovanna, mogliE di Cusa amministratore di Erode, Susanna, e molte altre che l’«assistevano con i loro beni». Tale notizia, che ci viene solo da Luca, ci conferma che Gesù si pose decisamente contro le usanze sociali del tempo (la donna era considerata un essere inferiore, emarginata, esclusa dalle funzioni pubbliche, senza diritti) e si procurò alcune collaboratrici dal mondo femminile. Un rabbino ebraico mai avrebbe accettato tra i suoi discepoli delle donne.

 

 • La vedova di Nain, la  donna della solitudine e della sofferenza – Lc 7,11-17.

 

Ecco la donna della solitudine e della sofferenza: la vedova di Nain, colpita nei suoi affetti più grandi: la morte del marito e dell’unico figlio, è ormai sola al mondo, è oggetto della compassione di Gesù che le risorge il figlioletto morto.

 

 • La peccatrice, donna che ha molto amato  – Lc 7,36-50.

 

Anonima meretrice, il cui nome per delicatezza è taciuto, donna che viene elogiata per i suoi gesti di amore riparatore a casa di Simone il fariseo in mezzo agli sguardi cattivi dei farisei, manifestando una grande riconoscenza verso Gesù che l’aveva strappata dal mondo del peccato.

 

 • La donna ammalata e incurvata  – Lc 13,10-17.

 

Gesù la guarisce di sabato nella sinagoga per insegnare agli scribi e ai farisei che la Legge non poteva proibire che in questo giorno si facesse del bene ad una persona.

 

«In tutto l'insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l'onore dovuto alla donna. La donna ricurva viene chiamata «figlia di Abramo» (Lc 13,16): mentre in tutta la Bibbia il titolo di «figlio di Abramo» è riferito solo agli uomini. Percorrendo la via dolorosa verso il Golgota, Gesù dirà alle donne: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me» (Lc 23, 28). Questo modo di parlare delle donne e alle donne, nonché il modo di trattarle, costituisce una chiara «novità» rispetto al costume allora dominante. Ciò diventa ancora più esplicito nei riguardi di quelle donne che l'opinione corrente indicava con disprezzo come peccatrici, pubbliche peccatrici e adultere, vedi ad esempio la Samaritana in Gv 4, la peccatrice a casa di Simone il Fariseo in Lc 7,37-47, la donna adultera in Gv 8,3-11. […] Questi episodi costituiscono un quadro d'insieme molto trasparente. Cristo è colui che «sa che cosa c'è nell'uomo» (cf Gv 2, 25), nell'uomo e nella donna. Conosce la dignità dell'uomo, il suo pregio agli occhi di Dio. Egli stesso, il Cristo, è la conferma definitiva di questo pregio. Tutto ciò che dice e che fa ha definitivo compimento nel mistero pasquale della redenzione. L'atteggiamento di Gesù nei riguardi delle donne, che incontra lungo la strada del suo servizio messianico, è il riflesso dell'eterno disegno di Dio, che, creando ciascuna di loro, la sceglie e la ama in Cristo (cf Ef 1, 1-5). Ciascuna, perciò, è quella «sola creatura in terra che Dio ha voluto per se stessa». Ciascuna dal «principio» eredita la dignità di persona proprio come donna. Gesù di Nazareth conferma questa dignità, la ricorda, la rinnova, ne fa un contenuto del Vangelo e della redenzione, per la quale è inviato nel mondo. Bisogna, dunque, introdurre nella dimensione del mistero pasquale ogni parola e ogni gesto di Cristo nei confronti della donna. In questo modo tutto si spiega compiutamente». Giovanni Paolo II, MD 13

 

 • La popolana, umile donna del popolo  – Lc 11,27.

 

Ecco un umile donna del popolo che aderisce con entusiasmo alle parole di Gesù e non può trattenersi dal gridare il suo elogio elogiando sua madre: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!».

 

• Marta e Maria, la donna nel suo ambiente domestico   – Lc 10,38-42.

 

Marta e Maria, sorelle di Lazzaro accolgono Gesù con tanta gioia, la loro casa è un ambiente tanto ospitale per Gesù, ambiente pieno di bontà, di pace e di serenità, anche se con qualche venatura leggera di animosità dovuta al diverso carattere delle due sorelle. Dal racconto traspare un Gesù che sta a suo agio e che ha con loro un rapporto familiare, fraterno, amicale, il modo in cui rimprovera Marta è molto affettuoso quel «Marta…, Marta» denota una tratto confidenziale di Gesù che è molto significativo. E il fatto che Marta non si rivolga alla sorella chiedendole aiuto per i servizi, ma si rivolge a Gesù perché inviti sua sorella ad aiutarla, dipinge un quadro familiare colorito, molto simpatico.

 

• Le donne piangenti lungo il Calvario  – Lc 23,27-32.

 

Solo Luca menziona un gruppo di donne che seguono Gesù mentre va al Calvario e piangono su di Lui.

 

 • Tabità, gazzella, la donna del volontariato  – At 9,36-41.

 

Donna che «abbondava in opere buone e faceva molte elemosine», a Pietro chiamato dai cristiani amici il giorno della sua morte, «tutte le vedove in pianto mostrarono le tuniche e i mantelli che Gazzella confezionava quando era fra loro» e Pietro opererà il grande miracolo del suo ritorno alla vita.

 

• Maria, mamma di Marco, e Rode, la sbadata  – At 12,10-16.

 

Maria, madre di Marco ospitava nella sua casa le riunioni dei primi cristiani e probabilmente era proprio a casa sua che Gesù celebrò l’Ultima Cena. Rode [=Rosa], era una fanciulla del gruppo di cristiani che la notte in cui Pietro fu liberato miracolosamente dal carcere, pregava a casa di Maria. Pietro fuggitivo bussa alla porta e lei scende ad aprire, ma per la grande gioia di averne riconosciuta la voce risale di nuovo a portare la notizia dimenticandosi di aprire la porta e lasciando così Pietro ancora chiuso fuori:  «Riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non aprì la porta, ma corse ad annunziare che fuori c'era Pietro. "Tu vaneggi!" le dissero. Ma essa insisteva che la cosa stava così. E quelli dicevano: "È l'angelo di Pietro". Questi intanto continuava a bussare e quando aprirono la porta e lo videro, rimasero stupefatti». 

 

• Lidia, la donna intelligente e intraprendente  – At 16,11-15.

 

Commerciante di porpora, si converte ascoltando un sermone di Paolo e lo «costringerà» a fermarsi a casa sua con i suoi compagni dicendo loro, dopo essere stata battezzata: «Se avete giudicato ch'io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa»

 

• Priscilla, moglie di Aquila, una coppia evangelizzatrice  – At 18,1-3.18.26.

 

Priscilla e suo marito Aquila ospitarono nella loro casa Paolo a Corinto e poi lo seguirono nel suo terzo viaggio apostolico. Luca li mostra attivamente evangelizzatori come coppia che mette se stessa al servizio dell’evangelizzazione.

 

• Donne nelle parabole: la dramma perduta e la vedova e il giudice iniquo  – Lc 15,8-10; 18,1-8.

 

Si può ancora dire che Luca soltanto racconta due parabole con donne quali protagoniste. La prima, quella della dramma perduta (15,8-10) in cui Luca mostra il quadro umano molto semplice e gustoso, della donna che chiama le amiche per condividere la gioia di avere ritrovato la sua dramma. La seconda quella del giudice iniquo (18,1-8), che ci mostra l’umile perseveranza di questa donna che incurante del rifiuto del giudice a fargli giustizia, lo continua a importunare senza vergognarsi di insistere.

 

• Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo: Donne della Pasqua   – Lc 24,9-11; 24,22-24.

 

E per terminare, si noti come Luca alla fine del suo Vangelo ci dice che furono per prime delle donne a proclamare l’annuncio della Risurrezione, nonostante la disistima degli stessi Apostoli: «Tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli. Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse» (24,9-11); e lo scetticismo dei due discepoli di Emmaus che così raccontano al Viandante sconosciuto: «Alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto» (24,22-24)

 

Al termine di questa lunga sfilata di personaggi femminili, non possiamo non constatare come Luca con la sua opera letteraria, Vangelo e Atti, abbia voluto illuminare la bellezza del genio femminile mostrandolo nella sua variegata ricchezza di realizzazione nel mondo, con connotazioni di particolare risalto tipiche del mondo femminile. Dietro ogni personaggio femminile, che viene descritto da Luca solitamente con pochi e vaghi tratti, possiamo cogliere il suo sguardo attento e compiuto, sguardo di stima, di rispetto e di simpatia che sa cogliere la ricchezza umana e i colori propri del genio femminile.

 

Se vogliamo possiamo ripercorrere tutta questa lunga serie di personaggi femminili presentati da Luca e non faremo assolutamente fatica a trasportarli ai nostri giorni, e non faremo fatica ad individuare, nel mondo delle nostre conoscenze femminili attuali, una qualche donna che oggi possiamo rapportare al personaggio evangelico lucano.

 

Non fa male ricordare a questo punto le parole di Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Mulieris dignitatis:

 

«La donna – nel nome della liberazione dal «dominio» dell'uomo – non può tendere ad appropriarsi le caratteristiche maschili, contro la sua propria «originalità» femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si «realizzerà», ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme. Nella descrizione biblica l'esclamazione del primo uomo alla vista della donna creata è un'esclamazione di ammirazione e di incanto, che attraversa tutta la storia dell'uomo sulla terra. Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque – come, del resto, anche l'uomo – deve intendere la sua «realizzazione» come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell'«immagine e somiglianza di Dio». MD 10

 

 

«Quanto è stato detto finora circa l'atteggiamento di Cristo nei riguardi delle donne conferma e chiarisce nello Spirito Santo la verità sulla eguaglianza dei due – uomo e donna. Si deve parlare di un'essenziale «parità»: poiché tutt'e due – la donna come l'uomo – sono creati ad immagine e somiglianza di Dio, tutt'e due sono suscettibili in eguale misura dell'elargizione della verità divina e dell'amore nello Spirito Santo. Ambedue accolgono le sue «visite» salvifiche e santificanti. Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per nulla quella azione salvifica e santificante dello Spirito nell'uomo il fatto di essere giudeo o greco, schiavo o libero, secondo le ben note parole dell'apostolo: «Poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Questa unità non annulla la diversità. Lo Spirito Santo, che opera una tale unità nell'ordine soprannaturale della grazia santificante, contribuisce in eguale misura al fatto che «diventano profeti i vostri figli», e che lo diventano anche «le vostre figlie». «Profetizzare» significa esprimere con la parola e con la vita «le grandi opere di Dio» (cf At 2, 11), conservando la verità e l'originalità di ogni persona, sia donna che uomo. L'«eguaglianza» evangelica, la «parità» della donna e dell'uomo nei riguardi delle «grandi opere di Dio», quale si è manifestata in modo così limpido nelle opere e nelle parole di Gesù di Nazareth, costituisce la base più evidente della dignità e della vocazione della donna nella Chiesa e nel mondo. Ogni vocazione ha un senso profondamente personale e profetico. Nella vocazione così intesa ciò che è personalmente femminile raggiunge una nuova misura: è la misura delle «grandi opere di Dio», delle quali la donna diventa soggetto vivente ed insostituibile testimone» – MD 16.

 

[Torna all'indice]

 

Dicembre 2009 –  Luca, l'Evangelista dei poveri

 

Dedichiamo questo nostro ritiro ad un’altra nota tipica di Lc: l’amore di Gesù per i poveri, i miseri, i diseredati della vita. Fin dal suo primo capitolo risuona dominante la predilezione divina verso i poveri.

 

E Lui stesso, Gesù, viene introdotto nel mondo dal Padre nella massima povertà: viene concepito per opera dello Spirito Santo da una umile fanciulla di Nazareth, promessa sposa di un umile operaio. Nasce a Betlemme nella povertà più assoluta e Giuseppe deve mendicare un posto per permettere a Maria di partorirlo non per la strada. L’annotazione lucana «perché non c’era posto per loro nella casa», è una frecciata al cuore del lettore che viene così invitato soavemente a far spazio a Gesù nel proprio cuore che deve farsi grotta, deve spogliarsi di tante cose – troppe! – per far spazio al Re dei cuori che vuol nascere in lui. L’estrema spogliazione del presepe, la sua nudità, la sua estrema povertà, la mangiatoia per culla rimandano con forza alla nudità e spogliazione della croce, all’immolazione d’amore che Egli farà di Sé al Padre per amore nostro.

 

Diversi sono i particolari che ci aiutano a comporre il dittico presepe-calvario:

 

§  non c’è posto per Lui alla nascita – viene crocifisso fuori delle mura di Gerusalemme

 

§  la nudità del corpicino del Bambinello – la nudità di Gesù Crocifisso;

 

§  viene avvolto in fasce da Maria – Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolgono in bende Gesù deposto dalla Croce (Gv 19,40);

 

§  viene posto in una mangiatoia – nell’Ultima Cena presenta anticipa il suo mistero pasquale offrendosi a noi in un pezzo di pane per essere mangiato;

 

A proclamare questa predilezione divina per i poveri è anche Maria nel suo Magnificat:

 

Lc 1 [46]Allora Maria disse: L'anima mia magnifica il Signore [47]e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, [48]perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. [49]Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: [50]di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. [51]Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; [52]ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; [53]ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. [54]Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, [55]come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre".

 

Maria si pone così in Luca come la rappresentante del popolo dei poveri che sperimentano il soccorso di Dio. Povertà, umiltà e mitezza sono un trinomio inscindibile nella mentalità nuova del Vangelo. Il povero nella vita, purtroppo, non è sempre umile e mite, e allora in questo caso sarà un superbo povero o un povero superbo lontano dal regno di Gesù. Ma diciamo che la povertà è la condizione materiale che più aiuta la persona ad essere umile. La mancanza di beni, la mancanza di potere, la mancanza di sicurezze, pone la persona ad esperimentare continuamente la propria impotenza e il bisogno di appoggiarsi su Dio e, quindi ad entrare con più consapevolezza nella comprensione della propria insufficienza creaturale. Il ricco vive, a causa della sua ricchezza la tentazione di credersi potente, forte e di poter così dirigere la sua storia, come quell’uomo della parabola che aveva deciso di mettersi un po’ a riposo e godersi la vita, convinto che la sua vita fosse nelle sue mani, ma non era così, come giustamente gli fa osservare Gesù: «Stolto! Questa notte stessa ti sarà richiesta la vita e quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12,20). La ricchezza è come una droga che fa ubriacare la persona e la pone in uno stato illusorio di esaltazione di sé. Ma dopo una notte prava, l’ubriaco non riesce più nemmeno a trovare la strada di casa e se la trova non riesce ad aprire la porta.

 

Non è la povertà materiale in sé ad essere un valore evangelico, quanto la sua dimensione spirituale che è l’umile distacco da ogni attaccamento disordinato ai beni di quaggiù e al senso di potere che ogni avere porta in sé. I poveri esaltati da Maria nel suo Magnificat sono gli anawim d’Israele. I poveri d’Israele, e cioè quel piccolo resto del popolo di Dio che ritornò in patria dopo l’esilio babilonese, popolo povero, umile e umiliato, ma – e qui è il cuore del concetto di anawim – consapevoli di essere amati da Dio, prediletti da Dio, benedetti da Dio. Non si può comprendere il concetto di umiltà evange-

 

lica e di mitezza senza questa consapevolezza. Lo stesso principio è annunziato da Gesù, come scopo della propria missione, quando nella sinagoga di Nazaret da inizio ufficiale ad essa:

 

Lc 4 [16]Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. [17]Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:  [18]Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, [19]e predicare un anno di grazia del Signore.  [20]Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. [21]Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi"

 

Poveri, prigionieri, ciechi, oppressi sono i destinatari unici della missione del Salvatore, d’altra parte se è Salvatore, può esserlo solamente da chi ha bisogno di essere salvato e sperimenta quindi un bisogno, una necessità, una impotenza. È chiaro che poveri, prigionieri, ciechi e oppressi non vanno intesi semplicemente dal punto di vista materiale, ma è indubbio che coloro che sono poveri materialmente esprimono ancor più sensibilmente il bisogno del Salvatore e chiunque segue il Signore Gesù e quindi la sua Chiesa, è impegnata ovunque non solo per la liberazione spirituale dell’uomo, ma anche da quella materiale. Da sempre i missionari cristiani insieme al Vangelo hanno contribuito fattivamente alla liberazione integrale della persona umana. Ma il Vangelo è innanzi tutto annuncio di una salvezza spirituale non materiale, l’aspetto materiale è una conseguenza non è il fine dell’opera evangelizzatrice.

 

Luca poi ci mostra quali devono essere gli ospiti prediletti dai seguaci di Gesù:

 

 Lc 4 [12]"Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. [13]Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; [14]e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti".

 

Da notare come il testo lucano delle Beatitudini è molto più forte e radicale di Matteo che non riporta come Luca, “beati voi poveri”, bensì “beati i poveri in spirito” (Mt 5,3), intendendo con questo termine propriamente coloro che hanno il cuore distaccato delle cose, si servono delle cose, ma non si lasciano asservire da esse, non si pongono nel mondo con arroganza e la boriosa forza del potere ostentata così spesso da chi ha ricchezze materiali, ma si pongono con umiltà e mitezza.

 

Luca, ci tiene a mettere in evidenza il valore della povertà in se stessa come mezzo per un’imitazione più perfetta del Figlio di Dio che, come dice Paolo:

 

Fil 2 [6] pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; [7]ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, [8]umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.

 

Ma torniamo al testo lucano delle Beatitudini:

 

Lc 6 [20]Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: "Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. [21]Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. [22]Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. [23]Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti.

 

Questa predilezione per i poveri è sottolineata in Luca anche dal grande rilievo che egli dà al pericolo delle ricchezze, in primo luogo nei durissimi “guai a voi” che Luca pone in antitesi ai “beati voi”:

 

Lc 6 [24]Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. [25]Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete.  [26]Guai  quando  tutti gli uomini diranno bene di voi.  Allo stesso modo infatti

 

facevano i loro padri con i falsi profeti.

 

La radicalità di Luca nei confronti della povertà ha una puntata ancora più alta in un brano tutto suo che gli altri evangelisti non riportano:

 

Lc 14 [28]Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? [29]Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: [30]Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. [31]Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? [32]Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace. [33]Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

 

Questo testo va inteso nel senso che ogni possesso deve essere posposto al Cristo e ogni discepolo deve essere disposto a perdere tutto, ma non la sua relazione d’amore con il Cristo. Infatti questo brano è preceduto immediatamente da un altro brano dove Gesù mette in evidenza il primato che il discepolo deve dare all’amore per Lui, se vuole essere veramente suo discepolo:

 

Lc 14 [25]Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: [26]"Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. [27]Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.

 

Ogni amore, ogni affetto, ogni attaccamento, ogni possesso deve essere posposto all’amore di Gesù Cristo non solo negli apostoli, ma in ogni discepolo del Signore. Questa è la radicalità lucana.

 

In comune con Matteo (cf Mt 6,25-34), Luca riporta la stupenda esortazione di Gesù a non affannarsi per le cose materiali, ma a cercare il Regno di Dio:

 

Lc 12  [22]Poi disse ai discepoli: "Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; nè per il vostro corpo, come lo vestirete. [23]La vita vale più del cibo e il corpo pù del vestito. [24]Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio nè granaio, e Dio li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! [25]Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? [26]Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? [27]Guardate i gigli, come crescono: non filano, non tessono: eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. [28]Se dunque Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede? [29]Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l'animo in ansia: [30]di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. [31]Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta. [32]Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno.

 

Da notare come questo brano in Matteo si conclude in modo diverso. Matteo conclude con “ad ogni giorno basta la sua pena” (Mt 6,34), mentre Luca: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. L’abbandono alla Provvidenza da parte dell’uomo si realizza nella consapevolezza di possedere il Regno. Inoltre notiamo anche come Luca, a differenza di Matteo, inserisce questo brano in un contesto di una domanda che qualcuno fece a Gesù di intervenire nella spartizione di un’eredità:

 

Lc 12 [13]Uno della folla gli disse: "Maestro, dì a mio fratello che divida con me l'eredità". [14]Ma egli rispose: "O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?". [15]E disse loro: "Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni". [16]Disse poi una parabola: "La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. [17]Egli ragionava tra sè: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? [18]E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. [19]Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. [20]Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? [21]Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio".

 

L’uomo è chiamato ad essere ricco, sì, ma di Dio e per possedere questa vera ricchezza deve spogliarsi di quelle false. La vera ricchezza dell’uomo è di ordine spirituale:

 

Lc 12 [33]Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. [34]Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.

 

È il desiderio del possesso di questo “tesoro inesauribile” che deve suscitare nel cuore del fedele quella spinta per spogliarsi dei beni materiali che sono impedimento ad esso, come vediamo nell’incontro di Gesù con il giovane ricco:

 

Lc 18 [22]… "Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi". [23]Ma quegli, udite queste parole, divenne assai triste, perché era molto ricco.

 

Gesù commentò questa tristezza che bloccò il cuore di quel giovane dicendo:

 

Lc 18 [24]…"Quant'è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. [25]È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio!".

 

Gli apostoli restano stupefatti da questa affermazione, per questo reagirono chiedendogli: "Allora chi potrà essere salvato?" (Lc 18,26). Gesù risponde appellandosi alla onnipotenza di Dio: “Gesù rispose: "Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio" (Lc 18,27). A questo punto Pietro chiese a Gesù

 

Lc 18 [28]… "Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito; [che cosa dunque ne otterremo? – cf Mt 19,27]".  [29]Ed egli rispose: "In verità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, [30]che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà".

 

In Matteo questo “molto di più” diventerà “cento volte tanto” (Mt 19,29): spogliandosi di tutto ci si ritrova padroni di tutto. Questo “molto di più” o questo “cento volte tanto” ci dice con chiarezza che Gesù non condanna il possesso delle cose, quanto il modo con cui si possiede, come già diceva il Salmo: «alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore» (62,11) e come la GS insegna:

 

GS 37. Redento da Cristo e diventato nuova creatura nello Spirito Santo, l'uomo, infatti, può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve: le vede come uscire dalle sue mani e le rispetta. Di esse ringrazia il divino benefattore e, usando e godendo delle creature in spirito di povertà e di libertà, viene introdotto nel vero possesso del mondo, come qualcuno che non ha niente e che possiede tutto (65): «Tutto, infatti, è vostro: ma voi siete di Cristo e il Cristo è di Dio » (1Cor3,22).

 

Luca poi ci mostra in Zaccheo, un modello di convertito al Regno. L’incontro con Gesù lo spinge a dare la metà dei suoi beni ai poveri e se si tiene l’altra metà è solo per restituire debitamente chi avesse frodato (cf Lc 19,8). Inoltre solo Luca ha la parabola del ricco epulone e il povero Lazzaro (16,19-31).

 

Infine Luca, negli Atti degli Apostoli ci mostra una comunità cristiana che è una comunità d'amore solidale in cui i beni materiali vengono condivisi:

 

At 2 [44]Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; [45]chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.

 

 

At 4 [32]La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. [33]Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. [34]Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto [35]e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.  

 

[Torna all'indice]

 

Gennaio 2010 –  Luca, l'Evangelista della mitezza

 

Dedichiamo questo nostro ritiro ad un’altra nota tipica di Lc: la sua gentilezza, tolleranza e squisita bontà d'animo, dall’opera lucana emerge una nota di soavità e dolce mitezza. Anche Dante Alighieri rimase colpito da questo aspetto essenziale del Vangelo di Luca (cf De Monarchia, I,16). Per noi che viviamo e lavoriamo nel tempo della Chiesa, questo messaggio lucano è «vademecum» indispensabile.

Omissioni e Variazioni

Dal confronto con gli altri evangelisti, si evidenzia come Luca omette ed evita tutte le espressioni che potrebbero offendere la loro suscettibilità. Due esempi:

 

• La Cananea – Mc 7,24-30 e Mt 15,21-28: Luca non riporta affatto questo episodio, presumibilmente perché troppo offensivo nei confronti dei pagani chiamati da Gesù «cagnolini».

 

• Peccatori e non pagani

 

Lì dove Matteo mette «pagani»in contrasto con «cristiani», Luca od omette o cambia il termine «pagani» con «peccatori»:

Mt 6 [7]Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole à omesso in Lc

Mt 6 [32]…di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno à omesso in Lc

Mt 5 … Non fanno così anche i pagani? [48]Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Lc 6 [32]Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. [33]E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. [34]E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto.

 

• Nei confronti degli Apostoli

 

Omette e attenua tutto ciò che, pur essendo vero, non recherebbe onore agli Apostoli.

Omette il passo in cui Marco riferisce che gli Apostoli non comprendono le parole di Gesù:

Mc 4 [13][Gesù] continuò dicendo loro: "Se non comprendete questa parabola, come potrete capire tutte le altre parabole?

Omette quando Marco racconta che gli Apostoli che non riescono a scacciare i demoni:

Mc 9 [28]Entrò poi in una casa e i discepoli gli chiesero in privato: "Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?".

Omette il racconto della fuga di tutti gli Apostoli all'arresto di Gesù:

Mc 14 [50]Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono.

Omette il severo rimprovero di Gesù a Pietro:

Mc 8 [31]E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. [32]Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. [33]Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: "Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini".

Attenua il rinnegamento di Pietro riportando il suo amaro pianto:

Lc 23 [54] ………[60]Ma Pietro disse: "O uomo, non so quello che dici". E in quell'istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. [61]Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". [62]E, uscito, pianse amaramente.

 

• Nei confronti dei Medici

 

Mentre Marco raccontando del miracolo dell’emorroissa mette in evidenza un giudizio fortemente negativo nei confronti dei medici che l’avevano curata, Luca scusa e addolcisce il tutto:

Mc 5 [25]Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia [26]e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando…

Lc 8 [43]Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire…

 

• Nei confronti dello Stato Romano

 

Benché quando Luca scrive il suo Vangelo ci sia già stata a Roma la persecuzione anticristiana di Nerone, egli si mostra favorevole allo Stato Romano: non rinuncia al messaggio cristiano e non fa concessioni di sorta; ma è realista, è tollerante, cerca la pace.

Questa accentuazione della bontà e della mitezza, mi fanno pensare alla figura di Giovanni XXIII, passato alla storia come il «Papa buono». Ecco quello che scriveva nel suo diario personale:

Da Il Giornale dell'Anima di Giovanni XXIII

691. Molta discrezione ed indulgenza nel giudizio degli uomini e delle situazioni; inclinazione a pregare specialmente per chi mi fosse motivo di sofferenza; e poi in tutto grande bontà, pazienza senza confini, ricordando che ogni altro sentimento – alla macedone, come si può dire qui – non è conforme allo spirito del Vangelo e della perfezione evangelica. Pur di far trionfare la carità a tutti i costi, preferisco essere tenuto per un dappoco. Mi lascerò schiacciare, ma voglio essere paziente e buono fino all'eroismo. Solo allora sarò degno di essere chiamato vescovo perfetto, e meritevole di partecipare al sacerdozio di Gesù Cristo, che a prezzo delle sue condiscendenze, umiliazioni e sofferenze, fu vero e solo medico e salvatore di tutta l'umanità: «Dalle sue piaghe siamo stati guariti» (1Pt 2,24).

Queste considerazioni sul Vangelo di Luca ci aprono a delle considerazioni sulla mitezza evangelica che il nostro Maestro Signore ci ha invitato a vivere con le sue parole e con il suo esempio. C’è in particolare un brano del Vangelo di Matteo che è fondamentale in merito:

Mt 11 [25]In quel tempo Gesù disse: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. [26]Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. [27]Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. [28]Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. [29]Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. [30]Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero".

Nella prima parte di questo brano Gesù parla dei «piccoli» come i beneficiari della rivelazione che Egli stesso, solo Egli può fare, del Padre: solo i piccoli conoscono il Padre non i sapienti e gli intelligenti, cioè quelli che credono di essere intelligenti e sapienti e non sono piccoli, i veri intelligenti e sapienti sono i piccoli perché ad essi il Padre si rivela attraverso il Figlio, che per noi si è fatto «Piccolo»: Piccolo Uomo, Piccolo Bambino.

Nella seconda parte del brano parla di Se Stesso come di persona «mite e umile» e invita a prendere su se stessi il suo «giogo dolce e il suo carico leggero». Possiamo benissimo intendere queste parole di Gesù come una spiegazione di quell’essere piccoli di cui parlava nella prima parte del brano: essere piccoli significa essere miti e umili.

Per comprendere meglio cerchiamo di capire chi erano nel Vecchio Testamento, questi piccoli di Dio, questi umili e miti di cui parla il Signore. Di essi si è fatta portavoce la sua Mamma nel cantico del suo Magnificat dove si riconosce amata e beneficata dal Padre a causa della sua piccolezza e canta alla bontà del Padre verso i suoi poveri. Si tratta degli anawim d’Israele:

 

Maria [come figlia di Sion] è legata indissolubilmente alla gens ebraica, a quel popolo che ha come capostipite Abramo. E le genealogie impiegate da Matteo e Luca confermano in pieno questa tesi. Da Abramo in poi attraverso varie generazioni si arriva alla Vergine, ultimo anello di una catena che percorre la storia di un popolo. In Lei trovano riscatto anche le zone d’ombra legare a personaggi famosi non sempre dediti totalmente al Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. In Lei, figlia di Eva, confluiscono le aspirazioni di tutti i figli della promessa, finalmente realizzata. Si tratta del piccolo resto, le cui caratteristiche sono la povertà e l’umiltà. Si distingue dagli orgogliosi che si pavoneggiano sulla collina di Sion. Per i profeti l’orgoglio, la sicurezza basata sul potere e sui beni materiali generano presunzione e tracotanza. Il nuovo popolo deve distinguersi povertà e umiltà; ciò permetterà di fondare le proprie speranze non sul potere politico, né sugli armamenti, né sulla ricchezza, ma sul riconoscimento e la sottomissione a Dio: è questo l’atteggiamento globale dell’uomo di fronte a Dio, atteggiamento che si confonde con quello della fede. Il resto, chiamato figlia di Sion, gode del privilegio della presenza nel proprio seno del Signore. “Sono gli anawim, cioè i poveri e gli umili d’Israele, che attendono la salvezza del Dio di Abramo, le donne sterili della prima Alleanza e lo stesso Israele sterile; al culmine di tale traiettoria c’è Maria, Arca dell’era messianica, Israele benedetto, figura della Chiesa e dell’intera umanità” (Enzo Bianchi, Magnificat, Benedictus, Nunc Dimittis, ed. Qiqajon-Bose 1989, pp.32ss.). – Vincenzo Mercante.

 

Chi sono questi anawim? Ecco cosa dice di essi Don Mario Galizzi sdb in una sua conferenza:

 

Una cosa sorprendente appare subito appena si inizia a indagare la storia dei termini “mitezza” (in greco: praútes) e “mite” (praús). Già nella letteratura greca i termini, riferiti alle persone, non indicano un comportamento passivo, bensì l’accettazione tranquilla e volontaria di un particolare destino o dell’ingiustizia umana. Per questo, i primi traduttori della Bibbia, quelli che ci hanno dato la versione dei LXX, si sono trovati subito a loro agio per rendere il significato del termine ebraico ’anaw, plurale: ’anawim. Inizialmente questo termine indicava colui che si trovava in una condizione bassa, subordinata, colui che doveva guadagnarsi il pane al servizio di altri e tante volte era costretto a sopportare con pazienza un destino di ingiustizia e di soprusi.

Più tardi però divennero “i poveri di Dio” i depositari per eccellenza della promessa divina. Essi erano ben consapevoli di godere del favore divino per il semplice motivo che erano umiliati dai potenti. Così che la loro sopportazione muta, paziente e serena del duro fatto dell’esilio, accettato senza mormorazioni o ribellioni o scoppi d’ira, divenne il segno della pietà, un segno fino allora sconosciuto. Di qui anche la netta distinzione dei termini “mitezza” e “mite” dall’uso linguistico del greco profano. La pacatezza, la mansuetudine, la mitezza dell’Antico Testamento sono radicate in Dio. Il mite infatti gode di un’incrollabile speranza. Un giorno, Dio darà il paese agli umili, ai sottomessi, cioè a coloro che godono l’attesa della salvezza.

 

Commentando il Salmo 149, Giovanni Paolo II dirà nella sua catechesi del 23 maggio 2001:

 

5. C’è un secondo vocabolo con cui sono definiti gli oranti di questo Salmo: essi sono gli ‘anawim, cioè “i poveri, gli umili” (v. 4). Questa espressione è molto frequente nel Salterio e indica non solo gli oppressi, i miseri, i perseguitati per la giustizia, ma anche coloro che, essendo fedeli agli impegni morali dell’Alleanza con Dio, vengono emarginati da quanti scelgono la violenza, la ricchezza e la prepotenza. In questa luce si comprende che quella dei “poveri” non è soltanto una categoria sociale ma una scelta spirituale. Questo è il senso della celebre prima Beatitudine: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5,3). Già il profeta Sofonia si rivolgeva così agli ‘anawim: “Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini; cercate la giustizia, cercate l’umiltà, per trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore” (Sof 2,3).

 

Quindi la mitezza e l’umiltà evangelica non sono espressioni di un carattere naturale, non si tratta di una umiltà o mitezza di carattere che si può avere per nascita così come si può avere un carattere impetuoso per costituzione, no, si tratta di essere piccoli, poveri, umili, per scelta e quindi di conseguenza anche miti. Possiamo dire che la mitezza è l’espressione esteriore di un cuore umile:

 

La mitezza si manifesta nel tratto gentile, dolce, pacato, che si oppone in modo radicale al tratto rude, rozzo, irritabile, irascibile e aspro. Paolo sa che non è facile e indica a chi deve correggere altri nella comunità un mezzo per riuscirvi: «Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione» (Gal 6,1). L’esistenza secondo lo Spirito non è all’insegna della sicurezza altezzosa della salvezza, ma del timore e del tremore (cf Fil 2,12). – Don Mario Galizzi sdb

 

Il cristiano deve testimoniare la mitezza:

 

È bello quanto scrive Paolo a Timoteo, un suo collaboratore nel ministero. Lo chiama: “Uomo di Dio”, e gli dice: “Cerca sempre la giustizia, la pietà, la fedeltà, l'amore, la pazienza, la mitezza (altre traduzioni invece di «mitezza» hanno bontà, dolcezza, delicatezza, che sono espressioni della mitezza)”. Così in 1Tm 6,11, mentre in 2Tm 2,24 dice: “Un servo del Signore non dev'essere litigioso, ma gentile con tutti, capace di insegnare e tollerante. Deve saper riprendere con mitezza (o: “dolcezza”) quelli che si oppongono, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi e riconoscano la verità e sfuggano al laccio del diavolo”. Scegliere la “mitezza” come mezzo per convertire altri. Di fronte alla “dolcezza” del tratto, alla gentilezza, chi resiste? È con la mitezza che si guadagnano altri alla fede.

Quanto Paolo dice a Timoteo vale per ogni cristiano come appare dal fatto che per Paolo la “mitezza” è legata alla vocazione (Ef 1,4) ed elezione divina: «Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansue-tudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!» (Col 3,12-15). Ora, per vivere la propria vocazione bisogna comportarsi con umiltà, mitezza, pazienza; bisogna avere sentimenti di misericordia, di bontà, sopportandosi e perdonandosi a vicenda e questo per conservare l'unità dello Spirito nel vincolo della pace.

Bellissimo è pure quanto si legge in 1Pt 3,13-17. Pietro esorta i cristiani a rispondere sempre, anche quando potrebbero essere irritati e indisposti per l'ingiustizia subita, con mitezza e gentilezza sia alle autorità sia a chiunque chieda loro conto della loro fede: «E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male».

Questi testi sono interessanti per tre motivi.

I – la parola “mitezza” è accompagnata da tanti altri termini che la esprimono sotto altre forme; tutte, però, sono espressioni dell'amore.

II – la mitezza è una libera scelta, è rinuncia volontaria a usare parole rudi e gesti violenti contro chi ci tratta male. Solo così, infatti, la si può vivere nella speranza della propria salvezza e della salvezza di tutti, anche di coloro che ci ostacolano. Così è vissuto Gesù.

III – Nel cristiano ha la capacità di vivere quanto si è detto perché “l'amore di Dio è stato effuso nel suo cuore mediante lo Spirito Santo che gli è stato dato… e perché l'amore è frutto dell'agire dello Spirito” (Rm 5,5; Gal 5,22). Quindi l'esortazione fondamentale è: “Camminate secondo lo Spirito” e l'amore di Dio che è stato effuso nei nostri cuori irraggerà tutti i suoi raggi e poco alla volta apparirà in tutta la sua bellezza, la vera fisionomia del cristiano. Il cammino da compiere non è facile, ma è bello perché ci rende costruttori di comunità, costruttori di un mondo nuovo, colmo di fraternità. Questo mondo sarà certamente un dono di Dio, ma Dio ci chiama a collaborare con Lui imitando il Figlio suo, Cristo Gesù. Chi vive la mitezza è un testimone vero del Signore e con Lui cammina sicuro verso la vittoria, perché un giorno la volontà salvifica di Dio si manifesterà in tutta la sua bellezza. – Mario Galizzi sdb

 

[Torna all'indice]

 

Febbraio 2010 – Il tempo liturgico della Quaresima

Il tempo liturgico della Quaresima

Il tempo santo della Quaresima è innanzi tutto essenzialmente preparazione alla Santa Pasqua.

«Scopo del tempo di Quaresima è quello di preparare alla celebrazione della Pasqua. La liturgia quaresimale infatti prepara alla celebrazione del mistero pasquale tanto i catecumeni (=le persone che si preparano a ricevere il santo Battesimo), per mezzo dei diversi gradi dell'iniziazione cristiana, quanto i fedeli, per mezzo del ricordo del Battesimo e della pratica della penitenza» (Norme Generali n. 27).  Battesimo e Penitenza sono quindi le due dimensioni quaresimali più importanti.

Battesimo: tutta la liturgia battesimale consiste in un mistero di morte e resurrezione: l'uomo e l'universo per ritrovare il proprio autentico significato, devono necessariamente «passare» attraverso una lotta in cui qualcuno deve morire. La forza mortifera del peccato viene a poco a poco smorzata e vinta mediante la volontaria «mortificazione» che ci fa riprodurre il mistero della morte di Cristo in noi. Colui che riesce a morire, attraverso la stessa morte conoscerà e possederà la vita.

La Quaresima comincia appunto presentandoci Cristo in lotta con Satana; lotta che va crescendo fino a toccare il culmine nel Calvario. Ma è proprio nell'accettazione volontaria e obbediente della morte che Cristo realizza la vittoria sulla stessa morte e ci introduce nella novità di vita. Il Battesimo ci fa passare dalla morte alla vita, distruggendo in noi l'uomo vecchio e creando in noi quello nuovo, secondo il modello che è Cristo.

Penitenza: oggi, pur nella mitigazione delle pratiche esteriori, rimane sempre urgente il dovere della penitenza. Tale dovere è continuamente ricordato nelle Messe quaresimali: Usiamo più parcamente delle parole, dei cibi e delle bevande, del sonno e degli svaghi e più attentamente vegliamo su di noi. Il vero digiuno è rinuncia a ciò che ingombra il cammino verso Dio e rende meno generoso il nostro servizio al Signore e ai fratelli. La Quaresima deve manifestare la tensione spirituale di un popolo penitente, cha attua in sé l'aspetto mortificante del mistero pasquale. La nostra penitenza trae motivo e significato dal battesimo che ci fa morire con Gesù  prima di risorgere con Lui.

S. Agostino ci dice: «Nessuno passa a Cristo per incominciare ad essere ciò che non era, se non fa penitenza di essere stato ciò che era».

Tuttavia la penitenza e la mortificazione, pur rappresentando l'aspetto più appariscente della Quaresima, non ne costituiscono tutta l'essenza. La Quaresima è innanzi tutto preparazione alla Pasqua. Il mistero della morte e resurrezione di Cristo comincia ad essere celebrato dai primi giorni della Quaresima e l'intera celebrazione non è che un continuo progredire verso detto traguardo glorioso. «Saliamo a Gerusalemme» (Mc 10,33), diceva Gesù ai suoi discepoli, all'approssimarsi della Pasqua. Anche per noi, prepararci alla Pasqua significa abbandonare le morte vie del vizio e del peccato e salire con Gesù verso la montagna di Dio e consacrarci a Lui nell'amore. 

Intesi in questo senso, i testi della liturgia quaresimale sono un invito non alla tristezza, ma alla gioia. Anche Gesù ci dice che, quando uno digiuna, deve ungersi il capo di profumo. Infatti, i sacrifici che il Signore ci chiede non hanno lo scopo di farci soffrire, ma di portarci all'amore. Il «sacrificio» in senso ascetico non consiste soltanto nel fare qualche cosa che costa, ma nel proposito fermo di amare, costi quel che costi.

La Quaresima non mira unicamente a rendere più mortificati, ma più ardenti nell'amore di Dio e del prossimo, malgrado i sacrifici che perciò saranno necessari. In questo senso, la Quaresima deve durare non quaranta giorni, ma tutta la vita. Sempre infatti dobbiamo essere disposti a lasciar cadere ciò che non giova all'eternità, se vogliamo dare la mano a Cristo risorto, per camminare con Lui verso l'eternità.

La Quaresima chiama tutti noi a convertirci al Signore, c'è non poco da cambiare dentro di noi: è necessario rimodellare la nostra mentalità, avere il coraggio di entrare fin nel segreto della nostra coscienza, dei nostri pensieri, e là operare il cambiamento. Questo inoltre dev'essere così vivo e sincero da produrre una novità. Qui sta l'esigenza prima del grande esercizio ascetico e penitenziale della Quaresima. E allora che cosa fare per ottenere un tale risultato? La risposta è ovvia: entrare in noi stessi, riflettere sulla nostra persona, acquisire una nozione chiara di ciò che siamo, vogliamo, facciamo; e a un certo momento rompere, cioè rompere, rompere qualche cosa di noi, spezzare questo o quell'elemento che ci è caro e a cui siamo abituati, e incominciare di nuovo, facendo sorgere in noi un po’ di primavera, una fioritura che sia garanzia di frutti di vita rinnovata…

 

Mercoledì delle ceneri

Verso il V secolo l’inizio della Quaresima viene anticipato al mercoledì precedente la prima domenica: in questo modo si ha un periodo di penitenza e digiuno esattamente di 40 giorni, tenuto conto che nelle cinque domeniche di Quaresima, come in ogni domenica dell’anno, la dimensione festiva prevale decisamente su quella penitenziale (tanto che nelle chiese d’Oriente si ritiene il digiuno incompatibile con la domenica). Anche per questa celebrazione l’origine è legata all’antica prassi penitenziale: il sacramento della penitenza, che assumerà in seguito una connotazione fortemente individuale, aveva nei primi secoli un forte carattere comunitario e pubblico: il rito del Mercoledì delle Ceneri dava inizio al cammino di penitenza dei fedeli che avrebbero ricevuto il perdono dei peccati la mattina del giovedì santo. Successivamente, il gesto viene esteso a tutti. 

La simbologia delle ceneri è ricca di risonanze bibliche. Abramo, in quella pagina in cui osa rivolgersi a Dio e “mercanteggiare” con lui la sorte degli abitanti di Sodoma, ricorda con umiltà di non essere altro che “polvere e cenere” (Gen 3,19); con la stessa espressione anche Giobbe riconosce la debolezza e la fragilità della condizione umana (Gb 30,19). La cenere è anche segno di pentimento: il re di Ninive, quando viene a sapere della minaccia di Dio, si copre di sacco e si mette a sedere sulla cenere (Gio 3,6); anche Giuditta invita tutto il popolo a cospargersi il capo di cenere, vestire di sacco e alzare le mani per supplicare il Signore (Gdt 4,11).

Questi due significati sono espressi anche dalle formule che accompagnano il gesto di imposizione delle ceneri: “Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai” (Gen 3,19) dice la fragilità,  la precarietà dell’uomo; “Convertiti e credi al Vangelo” sottolinea l’aspetto positivo della Quaresima, la disponibilità ad intraprendere un cammino di conversione e a lasciarsi riconciliare con Dio (2Cor 5,20).

«Con questo rito penitenziale sorto dalla tradizione biblica e conservato nella consuetudine ecclesiale fino ai nostri giorni, viene indicata la condizione dell’uomo peccatore che confessa esternamente la sua colpa davanti a Dio ed esprime così la volontà di una conversione interiore, nella speranza che il Signore sia misericordioso verso di lui. Attraverso questo stesso segno inizia il cammino di conversione, che raggiungerà la sua meta nella celebrazione del sacramento della penitenza nei giorni prima della Pasqua»Paschalis solemnitatis n. 21.

Con il segno penitenziale delle Ceneri, sorto nella tradizione biblica e conservato dalla Chiesa, riconosciamo di essere bisognosi del perdono di Dio ed esprimiamo la nostra fiducia nella sua misericordia; Egli si getta dietro le spalle i nostri peccati e ci reintegra nella comunione con lui. Il segno della cenere sul nostro capo sia il segno della risolutezza del nostro cammino di conversione nelle scelte del nostro quotidiano, nelle nostre relazioni interpersonali, nella nostra appartenenza alla comunità cristiana.

 IL CAMMINO QUARESIMALE DELL’ANNO  «C»»  

La grazia della Quaresima consiste nel camminare con Cristo verso la pienezza dell’amore nella donazione di noi stessi al Padre. Frutti della penitenza saranno la conversione del cuore nel digiuno, nella preghiera e nella carità. Nel percorso a tappe, la Parola con la sua ricca simbologia ci farà da maestra: deserto e tentazione (Ia Dom.), monte e luce della trasfigurazione (IIa Dom.), conversione e pazienza di Dio (IIIa Dom.), la difficile decisione del ritorno (IVa Dom.), l’empasse drammatico e la risoluzione nell’amore (Va Dom.)

 

Il percorso biblico-liturgico dell’anno «C»: La Quaresima, stagione del cammino

Il Vangelo di Luca ha come punto focale d’arrivo e di partenza Gerusalemme: Gesù punta su Gerusalemme per compiere la sua missione, da Gerusalemme parte la Chiesa per raggiungere gli estremi confini della terra. È tutto un cammino.

Anche la Quaresima è un tempo per camminare con Gesù. Un tempo memoriale del cammino di Dio nella storia e del cammino dell’uomo che si pone a seguire Dio.

In questo Anno C, i Vangeli, dopo le prime due domeniche della Tentazione e della Trasfigurazione, fanno risuonare l’invito alla conversione (3ª Dom.), a camminare come il Figliol prodigo per far ritorno a casa (4ª Dom.); solo in questo modo sarà possibile guardare in avanti cercando di non peccare più (5ª Dom.). 

In questo cammino abbiamo bisogno d’essere educati, guidati, stimolati. È il compito che svolge magistralmente la Chiesa in questo Tempo di Quaresima. Ma quali sono i significati del camminare?

«Camminare. Un gesto quotidiano e naturale come respirare, nutrirsi o dormire. Camminare. Un gesto carico di significati: un segno di vita, un segno di libertà, un segno di speranza. I primi passi incerti segnano l’inizio del cammino della vita. Gli ultimi passi affaticati e stanchi ne segnano la fine. Camminare è vivere. Non camminare è morire. Camminare insieme è segno di solidarietà, di comunione, di condivisione. Così camminare diventa un rito: una processione, un corteo, un pellegrinaggio, una marcia, una sfilata. Con questi riti antichi e presenti in tutte le culture, l’uomo esprime ciò che gli manca o gli è stato tolto, e così afferma ciò che va in cerca, ciò in cui crede o spera. Camminare è negare il male e la morte, è affermare la possibilità del trionfo della vita e la raggiungibilità del bene anche se non ne ha il possesso pieno e definitivo. Il credente sa che non è solo nel cammino della vita. Sa che il cammino della vita parte da Dio e a Dio ritorna. Sa che Dio cammina con lui» – G. Venturi.

Sia l’augurio per questa Quaresima: Dio cammini con ciascuno di voi

 

I Testi

Il cammino che ci attende è esigente, la posta in gioco è alta: la Pasqua del Signore, la vittoria della Vita sulla morte. È il senso del nostro andare: è passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà di figli di Dio amati e prediletti. Lasciamoci guidare con fiducia dallo Spirito: quello Spirito che non ci abbandonerà “nelle tenebre e nell’ombra di morte” ma ci verrà in soccorso. Non ci toglierà la fatica del cammino; le difficoltà ci saranno sempre anche mettendoci alla sequela di Gesù ma, come lui, noi non saremo in balìa del male. La morte ci ucciderà ma non per sempre, sarà l’inizio del cammino di gloria.

 

* Domenica 1ª di Quaresima: Fedeli alla Parola  Gesù tentato: Lc 4,1-13 

Il Signore ci chiede di metterci in cammino con Lui. Ci porta nel deserto ‘quotidiano’, luogo dell’intimità, per ascoltare la Parola. La Quaresima è il tempo della rivelazione del volto di Dio in Gesù, morto e risorto. Un volto che rivela l’amore gratuito, preveniente e infinito del Padre. L’atteggiamento per questo pellegrinaggio pasquale è quello del credente saldamente ancorato alla fede. E la fede è adesione del cuore alla Parola ascoltata; è proclamazione “con la bocca” dell’infinito amore di Dio per l’uomo. La Quaresima sia tempo di ascolto attento e serio del Signore Gesù, tempo in cui imparare da Lui a superare la tentazione di salvezza e felicità a basso costo con la fedeltà alla Parola di Dio. 

 

* Domenica 2ª di Quaresima: Discepoli di Cristo Gesù trasfigurato: Lc 9,28b-36

La Quaresima è il tempo dell’esperienza del deserto per giungere alla terra promessa, all’incontro con Dio. È un cammino animato dal desiderio di cercare il volto del Signore. La fede ci dona di scoprire il Suo volto nelle vicende quotidiane della nostra vita. L’invito del Padre ad ascoltare suo Figlio, è quindi invito alla sequela in un itinerario di fedeltà a Dio e all’uomo. Ma la sequela va vissuta nel concreto della situazione storica: ciascuno nel suo ambiente deve portare lo stile di Cristo. La logica della Croce troverà sempre resistenza nei discepoli: essi, chiusi nei loro orizzonti umani, non comprendono.

 

* Domenica 3ª di Quaresima: Convertirsi è vivere “Se non vi convertite…”: Lc 13,1-9

Il cammino dell’autentica conversione è lungo ed impegnativo, non può essere compiuto una volta per sempre. Per questo è urgente iniziare oggi! Dio è paziente: non solo attende con fiducia il nostro ritorno, ma ci circonda di cure, ci indica la strada, ci dona la sua Parola, i Sacramenti, ci nutre con il suo Corpo e con il suo Sangue. Questo è il momento favorevole, questo è il tempo della salvezza!

 

* Domenica 4ª di Quaresima: Nell’abbraccio dell’Amore Il padre buono: Lc 15,1-3.11-32

Il cammino di quaresima è un pellegrinaggio, un passaggio attraverso il deserto nel quale siamo chiamati a fare delle scelte fondate sul Signore Gesù; è l’occasione di conoscere i tratti del volto di Dio e nello stesso tempo, contemplando la sua bellezza che splende sul volto di Cristo, anche i tratti del nostro volto. Il nostro Dio è “Padre”, sempre, quali che siano le mancanze nostre. Per Dio, non c’è proporzione tra il perdere l’eredità e il perdere la filiazione. L’investimento monetario importa poco. È la relazione umana che resta sempre il primo valore da proteggere e da ricostituire ad ogni costo quando è rotta o minacciata. Insomma, anche dopo aver dato tutto, il Padre dona ancora di più!

 

* Domenica 5ª di Quaresima: Rinnovati dal perdono Neanch’io ti condanno”: Gv 8,1-11

La liturgia oggi ci presenta una pericope giovannea (Gv 8,1-11) che è stata interpolata nel Vangelo e nella quale i commentatori riconoscono un indiscusso stile di Luca. Negli altri evangelisti (i sinottici) non esiste un testo equivalente. Il trittico evangelico di queste domeniche giunge al compimento massimo: la donna alzando gli occhi vede finalmente Uno che la guarda in modo radicalmente diverso dagli altri. Nessun uomo l’aveva osservata in quel modo. I tipi di sguardo erano finora due: quello del desiderio, di cupidigia, e quello di condanna (non è ancora così sulle nostre strade?È il compimento del cammino quaresimale, domenica prossima saremo interpellati direttamente… Ma già qui il vero accusato è Gesù. Le provocazioni della conversione quaresimale finora proposta oggi hanno due aspetti: nel primo siamo messi come gli accusatori di fronte a noi stessi, siamo chiamati a verificarci prima di proseguire il cammino; nel secondo, Gesù ci aspetta, sta all’incontro personale, ridesta in noi una vita nuova. La sua parola è disarmante, ti cambia vita. A noi l’attuazione…      

 

[Torna all'indice]

 

Marzo 2010 – Il Regno

 

Abbiamo iniziato questa Quaresima 2010 con il santo rito dell’imposizione delle ceneri in cui il sacerdote, apponendo sul nostro le ceneri ha detto «Ricordati sei e polvere e polvere tornerai» (cf Gen 3,19), oppure, come la Chiesa ha stabilito dopo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II: «Convertitevi e credete al vangelo» citando così Mc 1,15 la cui frase completa è:

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo". – Mc 1,14-15

Gesù annuncia un avvenimento che si compie: Il Regno di Dio che sta arrivando. Si tratta di qualcosa di imminente, che sta arrivando e che si compie proprio nel momento in cui chi ascolta l’annuncio crede ad esso: allora il Regno di Dio si instaura nel cuore di chi ha creduto. 

Gli Evangelisti Luca e Marco parlano di questo Regno come del «Regno di Dio», Matteo più attento alla delicatezza dell’uso ebraico di non pronunciare mai il nome santissimo di “Dio” – perché pronunciarlo sarebbe già come bestemmiarlo – ne parla come il «Regno dei cieli» (32 volte: cf Mt 3,2; 4,17; 5,3; 5,10; ecc.) e anche come «Regno del Padre» (cf Mt 13,43; 26,29).

Nell’insegnamento di Gesù, il Regno di Dio si presenta anzitutto come un intervento di Dio nel corso della storia. Questo è vero anche dell’AT; ma nel NT l’intervento si manifesta nella venuta stessa del Figlio di Dio.

Quando Gesù, il Maestro, parlava del Regno del Padre si capisce che evocava una realtà ben nota ai suoi uditori. Nondimeno la frase «Regno di Dio» si trova solo in Sap 10,10, ma l’idea che essa racchiude invece vi ha un grande posto e si può dire che la maniera con cui il NT ne parla ha, nell’AT, radici profonde. Infatti 

– Nell’AT si parla più sovente di JHWH che regna, di JHWH re. Solo più tardi, negli scritti recenti, subentra la formula astratta «il regno di jhwh», senza però alcun cambiamento di significato. Viene sempre indicata l’azione potente di Dio, il fatto del suo dominio sovrano. I testi biblici di regola non intendono, con queste espressioni, riferirsi ad un territorio né a un numero qualsiasi di persone su cui Dio regna. La traduzione migliore di questo termine sarebbe la seguente: «la regalità di Dio». – Schede Bibliche Pastorali, Voce: Regno di Dio, 3242-3243.

Certamente questo è vero, ma non bisogna dimenticare che, pur essendo Dio il re assoluto e signore del mondo, lo è in modo particolare del popolo di Israele:

Es 19 [3]Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: "Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: [4]Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. [5]Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! [6]Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti".

Bisogna tener conto che:

– … ci troviamo davanti a un linguaggio tipico della cultura religiosa dei popoli antichi del medio oriente. In questa aerea era usuale l’appellativo di re attribuito alla divinità. Il vocabolo si prestava ottimamente a indicare la sovranità di Dio che esige obbedienza e sottomissione dagli uomini e presta loro aiuto e protezione. Israele lo ha fatto proprio, non senza però caricarlo di significati originali. Così è anche di Gesù. S’impone così l’esigenza, riconosciuta l’origine culturale del de linguaggio, di determinare la specifica forza significativa all’interno della fede israelitica e cristiana in un Dio rivelatosi nella storia. In concreto le espressioni bibliche «JHWH è re», «JHWWH regna», «il regno di JHWH», «il regno di Dio», «il regno dei cieli», servono a significare l’azione divina creatrice nella storia e nei tempi ultimi, che il NT dice inaugurati con Gesù Cristo. – Schede Bibliche Pastorali, Voce: Regno di Dio, 3243.

Nella Storia della Salvezza noi vediamo come Dio voglia stabilire il suo Regno in mezzo agli uomini. «Regno» richiama «autorità» – «potere» – «dominio», ora questo Regno di Dio non è però un regno alla maniera umana, ma tutta sua come Gesù disse a Pilato:

Gv 18 [36] … "Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù".

 

È «autorità» che non opprime, ma serve:

Lc 12 [37]Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.

Lc 22 [24]Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. [25]Egli disse: "I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. [26]Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. [27]Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve.

È «potere» che non schiavizza, ma libera:

Gv 15 [15]Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi.

È un «dominio» che non schiaccia, ma innalza

Sap 11 [21]Prevalere con la forza ti è sempre possibile; chi potrà opporsi al potere del tuo braccio? [22]Tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. [23]Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. [24]Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata. [25]Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l'avessi chiamata all'esistenza? 12 [1]poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. [2]Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli e li ammonisci ricordando loro i propri peccati perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore. [26]Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue, Signore, amante della vita

il regno di dio nei testi del vt

Il Pentateuco mostra la regalità di JHWH in riferimento all’azione divina di riscatto del popolo ebreo dall’oppressione egiziana e di averlo condotto nella Terra Promessa (cf Es 15,18; Nm 23,21-22):

I Profeti continuano in questa linea storico-salvifica, ma con lo sguardo rivolto non più al passato, bensì al futuro. L’esperienza cede il posto all’attesa della regalità di JHWH. In Mi 4,6-7 leggiamo il seguente oracolo di speranza: «In quel giorno – dice il Signore – radunerò gli zoppi, raccoglierò gli sbandati e coloro che ho trattato duramente. Degli zoppi Io farò un resto, degli sbandati una nazione forte. E il Signore regnerà su di loro sul monte Sion, da allora e per sempre». La prospettiva di un futuro intervento di JHWH a liberare gli esuli e a dar vita ad un nuovo Israele costituisce il nucleo centrale del messaggio di consolazione dell’anonimo profeta dell’esilio, la cui predicazione è stata raccolta nei cc. 40-55 del libro di Isaia. – Schede Bibliche Pastorali, Voce: Regno di Dio, 3244.

Nel Libro dei Salmi risuona tutta la gamma delle modalità di significato proprie del tema veterotestamentario del regno di Dio:

– Anzitutto essi celebrano JHWH re in quanto creatore del mondo (Sal 93; 96)  […]. Più frequente, comunque e accentuato, è il riferimento alla storia salvifica del popolo. Con potenza Dio ha introdotto Israele nella Terra Promessa (Sal 47,2-5). Lo ha liberato dall’esilio babilonese (Sal 98,1-3.6).  […] Soprattutto però i Salmi cantano la futura regalità del Signore. Tutti i popoli lo riconosceranno e gli tributeranno gloria, acclamandolo come re e verrà a instaurare la giustizia nel mondo (Sal 96,7-10.13). Egli allora condannerà gli idolatri e salverà i suoi fedeli (Sal 97, 7.10-11). Il suo intervento finale costituirà il giudizio ultimo sulla storia (Sal 98,4-9). –  Schede Bibliche Pastorali, Voce: Regno di Dio, 3245-3246.

I testi apocalittici del VT, poi parlano del regno di Dio, come regno ultimo che deve arrivare con la fine dei tempi in mezzo a catastrofi cosmiche (cf cc. 24-24 di Isaia e il c. 7 di Daniele)

Nei Libri Sapienziali il Regno di Dio è presentato il frutto della realizzazione progressiva del piano stabilito dalla sapienza divina che aveva messo la sua tenda in mezzo al popolo d’Israele e che si identificava con la Legge che Dio aveva donato al suo popolo attraverso il ministero di Mosè (cf Sir 24)

lo sviluppo del concetto di regno di dio nel vt

Il popolo di Israele aveva concepito dapprima la regalità di Dio come una realtà attuale, che si manifestava nel tempo a lui presente. Considerato in questo modo, il Regno di Dio era legato al destino di Israele, perché era in mezzo al suo popolo che Dio si rendeva presente. Questa presenza era localizzata nell’arca dell’alleanza che in un primo tempo era errabonda in mezzo al suo popolo e custodita nella tenda del tabernacolo. Con la costruzione del Tempio da parte di Salomone questa presenza si rese ancora più localizzabile e indicabile in quella parte più sacra di esso in cui l’arca veniva custodita. Era questa presenza che dava a Israele la coesione e ne faceva un popolo.

Ma questa prima comunità di Dio era solo un segno. Preannunciava un nuovo Regno di Dio, più interiore e universale. Dio sarebbe stato presente non solo al suo popolo in quanto tale, ma a ciascuno dei suoi membri. Meglio ancora sarebbe stato in essi sotto una nuova alleanza. Tutti gli uomini, e non più solo i figli di Abramo, avrebbero potuto desiderare di unirsi a lui.

Fu nel crogiolo dell’esilio che Israele acquistò questa nuova comprensione del suo destino. La gloria di Dio aveva abbandonato il Tempio (Ez 10,18-19), l’arca era scomparsa, il tempio stesso era stato distrutto.   Nel piano di Dio questi tristi eventi furono la prova purificatrice destinata a far maturare la mentalità del popolo in vista di nuove grazie e di più ricche benedizioni. Di fronte alla rovina della monarchia Israele comprese meglio e in maniera più profonda dove si situava la tenerezza e la fedeltà di Dio. Era nato un Israelita spirituale che si sviluppò in una coscienza più profonda della vicinanza di Dio, Geremia – Ezechiele – il Deutero Isaia preparano il popolo alla venuta di un regno rinnovato e ampliato. Da questo momento il regno di Dio apparve come una realtà del mondo futuro, una realtà che non si sarebbe più limitata ad Israele, ma che avrebbe compreso tutti i popoli.

Dopo secoli di preparazione, il popolo giudaico viveva in una accentuata attesa del Regno di Dio. Molto spesso questa attesa assunse un tono politico: si sperò che la monarchia davidica venisse restaurata. Ma le anime più profondamente religiose videro nel regno una realtà essenzialmente interiore: obbedire alla Legge significava mettersi sulle spalle il giogo leggero del Regno di Dio.

Il NT, infine, annuncia il Regno come imminente in forza della morte e risurrezione di Gesù Cristo, o come già avvenuto nella sua persona, e pone l’accento sul suo carattere essenzialmente interiore, fondato sulla carità. Il nostro mondo cristiano vive nell’attesa della manifestazione piena di questo regno alla fine dei tempi.

Questi sono gli aspetti che l’espressione “Regno di Dio” contiene. Non c’è contraddizione fra essi; non differiscono completamente gli uni dagli altri, anche se non sono identici. Legati gli uni agli altri, dipendono l’uno dall’altro, costituiscono delle tappe nella realizzazione progressiva di quella comunione di vita che Dio ha voluto stabilire tra sé e l’umanità.

gesù cristo e il regno di dio

Poiché Gesù è Dio e in lui Dio è disceso sulla terra, dovremmo imparare a trovare in Lui il compimento delle promesse: Dio che viene in persona per stabilire il suo Regno tra gli uomini.

Ora di questo Regno Gesù ci ha parlato come:

* a un uomo che "uscì a seminare“ e sparse il suo seme dovunque ma crebbe solo sulla terra buona (Mt 13,3ss);

* “a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo”, ma vede crescere in esso anche l’erba cattiva (Mt 13,24ss);

* “a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami” (Mt 13,31-32);

* “al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti" (Mt 13,33);

* “a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (Mt 13,44);

* “a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra” (Mt 13,45-467;

* “a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci” (Mt 13,47ss).

* “a un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce” (Mc 4,25-26)

* “a un re che volle fare i conti con i suoi servi”(Mt 18,23); 

* “a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio”, ma gli invitati si scusano e non partecipano provocando l’ira del re che chiamerà così alla festa i poveri e gli ultimi (Mt 22,2ss);

* “a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna”(Mt 20,1); 

* “a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo”, ma, “cinque di esse erano stolte e cinque sagge” (Mt 25,1ss);

* “a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni” (Mt 25,14ss). 

Gesù parla ancora del Regno come proprietà dei poveri e dei perseguitati: «Vostro è il regno» (Lc 6,20). 

Ci dice ancora che difficilmente un ricco potrà entrarvi (Lc 18,25) e sarebbe meglio per noi tagliarci una mano un arto e entrarvi monchi piuttosto che rimanervi fuori (Lc 9,43). 

Per entrarvi è necessario una rinascita nell’acqua e nello Spirito (Gv 3,5), e che questo regno è dei piccoli e dei bambini e se non diventiamo come loro non vi entreremo (Lc 18,17).

È un regno che soffre violenza e solo coloro che si sforzano e si fanno violenza vi entreranno (Mt 11,12)

Se cercheremo questo regno con tutte le nostre forze, ogni cosa ci verrà data in più:

Mt 6 [31]Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosse-remo? [32]Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. [33]Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 

Entreranno in questo regno i “benedetti” che lo avranno sfamato e dissetato, vestito, alloggiato e visitato nei suoi fratelli più piccoli (cf Mt 25,31ss).

Le opere di Gesù dicono tutto il contenuto di questo regno, che è una battaglia contro ciò che opprime l’uomo. Inizia infatti con guarire i malati, perdona i peccatori, risuscita i morti, giudica severamente i prepotenti, vince satana… e alla fine, con la sua resurrezione, vince anche la padrona del mondo che è la morte. La sua vicenda umana esprime altresì l’appoggio di Dio ad ogni causa di liberazione ed elevazione umana. La sua morte e resurrezione rivelano come abbia capovolto le sorti degli uomini e della storia.

Il Regno si semina nella storia, si affianca ai ritmi delle nostre libertà umane perché ne vuole accoglienza e collaborazione, Cristo è stato l’inizio; poi viene il tempo di una lunga battaglia guidata da lui come Signore risorto e vivo; alla fine – dopo aver sconfitto ogni nemico dell’uomo e di Dio – il Regno si rivelerà come la realtà vincente, unica e definitiva. È un’opera discreta, velata, per non forzare la libertà d’ognuno. Ma non meno puntigliosa e inarrestabile.

Un giorno quel che oggi è velato si manifesterà. Quel castello di menzogne, di falsi valori, di manipolazioni supponenti e prepotenti che distolgono l’uomo dalla verità e dal bene, sarà smontato e apparirà «il Figlio dell’uomo nella sua gloria con tutti i suoi angeli» (Mt 25,31), quale giudice supremo e insindacabile di ogni uomo. Allora apparirà come non sia cosa indifferente fare il bene o il male; come non sia soggettivo, istintivo e capriccioso gestire la propria vita e la storia; come sia stata grande illusione e creduloneria fidarsi delle mode, dei persuasori televisivi, degli incantatori al permissivismo, al disimpegno, alla furbizia…! E per i giusti sarà il giorno della verità e … della rivincita!  Allora si dirà: “Chi aveva ragione?” 

Camminando verso quel giorno, il Signore Gesù ci ha invitato a pregare il Padre perché venga presto questo giorno (Mt 6,10) in cui «Egli consegnerà il regno a Dio Padre” e avrà  “posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte… e  quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,24-28) Nel frattempo che questo avvenga, egli ci ha detto di non scoraggiarci perché questo regno è già presente nel mondo: «il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17,21) ed è un Regno aperto a tutti: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28) e le sue porte si aprono immediatamente a chi con fiducia invoca il nome di Gesù come lo invocò il ladrone pentito che sulla croce disse: «Gesù di ricordati di me quando sarai nel tuo regno» (Lc 23,42).

Una domanda dobbiamo porci tutti al termine di quanto detto: siamo uomini e donne del Regno? o meglio desideriamo appartenere veramente a questo Regno. Uomini nuovi e donne nuove che hanno nel cuore, nella mente, nell’anima il Signore, che desiderano annunciare a tutti questo Regno, Regno di semplicità e di verità, di umiltà e di servizio, di purezza e gioia. Essere testimoni autentici, veri, credibili di questo Regno, ecco l’invito, ecco il desiderio, ecco la missione, ecco la vocazione che Gesù dona oggi a tutti noi: portare a tutti l’annuncio di gioia che il regno di Dio è in mezzo a noi!

 

[Torna all'indice]

 

Aprile 2010 – l sacerdozio regale e profetico del popolo santo di Dio

 

I sacramenti in genere

CCC 774. La parola greca "mysterion" è stata tradotta in latino con due termini: "mysterium" e "sacramentum". Nell'interpretazione ulteriore, il termine "sacramentum" esprime più precisamente il segno visibile della realtà nascosta della salvezza, indicata dal termine "mysterium". In questo senso, Cristo stesso è il Mistero della salvezza: “Non v'è altro Mistero di Dio, se non Cristo" [Sant'Agostino]. L'opera salvifica della sua umanità santa e santificante è il sacramento della salvezza che si manifesta e agisce nei sacramenti della Chiesa (che le Chiese d'Oriente chiamano anche "i santi Misteri"). I sette sacramenti sono i segni e gli strumenti mediante i quali lo Spirito Santo diffonde la grazia di Cristo, che è il Capo, nella Chiesa, che è il suo Corpo. La Chiesa, dunque, contiene e comunica la grazia invisibile che essa significa. È in questo senso analogico che viene chiamata "sacramento". 

Dunque Gesù Cristo è il primo sacramento, la sua umanità è sacramento del Padre: «Chi vede Me, ha visto il Padre» (Gv 14,9; cf 12,45), in Lui è racchiuso tutto il mistero di Dio, in Lui «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9).

E poiché «Lui è anche il Capo del suo Corpo che è la Chiesa» (Col 1,18), la Chiesa stessa è anch’Essa sacramento:

CCC 775. "La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" [LG 1]. Essere il sacramento dell'intima unione degli uomini con Dio: ecco il primo fine della Chiesa. Poiché la comunione tra gli uomini si radica nell'unione con Dio, la Chiesa è anche il sacramento dell'unità del genere umano. In essa, tale unità è già iniziata poiché essa raduna uomini "di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7,9); nello stesso tempo, la Chiesa è "segno e strumento" della piena realizzazione di questa unità che deve ancora compiersi.   

CCC 776. In quanto sacramento, la Chiesa è strumento di Cristo. Nelle sue mani essa è lo "strumento della Redenzione di tutti", [LG 1] "il sacramento universale della salvezza", [LG 1] attraverso il quale Cristo "svela e insieme realizza il mistero dell'amore di Dio verso l'uomo" [GS 45]. Essa "è il progetto visibile dell'amore di Dio per l'umanità", [Paolo VI] progetto che vuole "la costituzione di tutto il genere umano nell'unico Popolo di Dio, la sua riunione nell'unico Corpo di Cristo, la sua edificazione nell'unico tempio dello Spirito Santo" [AG 7; cf LG 17].

Attraverso i sacramenti i fedeli vengono uniti strettamente a Gesù Cristo:

CCC 790. I credenti che rispondono alla Parola di Dio e diventano membra del Corpo di Cristo, vengono strettamente uniti a Cristo: "in quel Corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che attraverso i sacramenti vengono uniti in modo arcano ma reale a Cristo che ha sofferto ed è stato glorificato" [LG 7]. Ciò è particolarmente vero del Battesimo, in virtù del quale siamo uniti alla Morte e alla Risurrezione di Cristo, [Cf Rm 6,4-5; 1Cor 12,13 ] e dell'Eucaristia, mediante la quale "partecipando realmente al Corpo del Signore" "siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi" [LG 7]. 

CCC 793. Egli ci unisce alla sua Pasqua. Tutte le membra devono sforzarsi di conformarsi a lui finché in esse "non sia formato Cristo" (Gal 4,19). "Per ciò siamo assunti ai misteri della sua vita… Come il corpo al Capo veniamo associati alle sue sofferenze e soffriamo con lui per essere con lui glorificati" [LG 7].

CCC 794. Egli provvede alla nostra crescita [Cf Col 2,19 ]. Per farci crescere verso di lui, nostro Capo, [cf Ef 4,11-16] Cristo dispone nel suo Corpo, la Chiesa, i doni e i ministeri attraverso i quali noi ci aiutiamo reciprocamente lungo il cammino della salvezza.

CCC 795. Cristo e la Chiesa formano, dunque, il "Cristo totale". La Chiesa è una con Cristo. I santi hanno una coscienza vivissima di tale unità: «Rallegriamoci, rendiamo grazie a Dio, non soltanto perché ci ha fatti diventare cristiani, ma perché ci ha fatto diventare Cristo stesso. Vi rendete conto, fratelli, di quale grazia ci ha fatto Dio, donandoci Cristo come Capo? Esultate, gioite, siamo divenuti Cristo. Se egli è il Capo, noi siamo le membra: siamo un uomo completo, egli e noi… Pienezza di Cristo: il Capo e le membra. Qual è la Testa, e quali sono le membra? Cristo e la Chiesa» [S. Agostino]. «Il nostro Redentore presentò se stesso come unica persona unita alla santa Chiesa, da lui assunta» [S. Gregorio Magno]. «Capo e membra sono, per così dire, una sola persona mistica» [S. Tommaso d'Aquino]. Una parola di Santa Giovanna d'Arco ai suoi giudici riassume la fede dei santi Dottori ed esprime il giusto sentire del credente: «A mio avviso, Gesù Cristo e la Chiesa sono un tutt'uno, e non bisogna sollevare difficoltà». 

Quindi i sacramenti sono il mezzo con cui il Signore ci unisce a Sé in un solo corpo, ci partecipa Se Stesso nel suo Santo Spirito e coll’azione del suo Santo Spirito operante in essi attua la nostra santificazione, cioè la nostra sempre maggior somiglianza a Lui:

2Cor 3 [18]E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore.

Rm 8 [29]Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli;

E così, lavorati dallo Spirito Santo, se corrispondiamo alla sua opera purificatrice, illuminatrice e unitiva, potremo un giorno con Paolo dire: «Non sono più io a vivere, ma è Gesù che vive in me» (Gal 2,20).

Le tre prerogative di Gesù Cristo partecipate nei Sacramenti

LG 32: Dignità dei laici nel popolo di Dio

La santa Chiesa è,0, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo, infatti, che in uno stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e individualmente siano membri gli uni degli altri» (Rm 12,4-5). Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché «non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).

Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo. La distinzione infatti posta dal Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo di Dio comporta in sé unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati tra di loro da una comunità di rapporto: che i pastori della Chiesa sull'esempio di Cristo sono a servizio gli uni degli altri e a servizio degli altri fedeli, e questi a loro volta prestano volenterosi la loro collaborazione ai pastori e ai maestri. Così, nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo: poiché la stessa diversità di grazie, di ministeri e di operazioni raccoglie in un tutto i figli di Dio, dato che « tutte queste cose opera… un unico e medesimo Spirito» (1 Cor 12,11).

I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non è venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per autorità di Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l'ufficio di pastori, in modo che sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità. A questo proposito dice molto bene sant'Agostino: «Se mi spaventa l'essere per voi, mi rassicura l'essere con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di ufficio, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza».

LG 34: Partecipazione dei laici al sacerdozio comune

Il sommo ed eterno sacerdote Gesù Cristo, volendo continuare la sua testimonianza e il suo ministero anche attraverso i laici, li vivifica col suo Spirito e incessantemente li spinge ad ogni opera buona e perfetta.

A coloro infatti che intimamente congiunge alla sua vita e alla sua missione, concede anche di aver parte al suo ufficio sacerdotale per esercitare un culto spirituale, in vista della glorificazione di Dio e della salvezza degli uomini. Perciò i laici, essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo Spirito Santo, sono in modo mirabile chiamati e istruiti per produrre frutti dello Spirito sempre più abbondanti. Tutte infatti le loro attività, preghiere e iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e anche le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano offerte spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2,5); nella celebrazione dell'eucaristia sono in tutta pietà presentate al Padre insieme all'oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso.

LG 35: Partecipazione dei laici alla funzione profetica del Cristo

Cristo, il grande profeta, il quale con la testimonianza della sua vita e con la potenza della sua parola ha proclamato il regno del Padre, adempie il suo ufficio profetico fino alla piena manifestazione della gloria, non solo per mezzo della gerarchia, che insegna in nome e con la potestà di lui, ma anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni provvedendoli del senso della fede e della grazia della parola (cfr. At 2,17-18; Ap 19,10), perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale. Essi si mostrano figli della promessa quando, forti nella fede e nella speranza, mettono a profitto il tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rm 8,25). E questa speranza non devono nasconderla nel segreto del loro cuore, ma con una continua conversione e lotta «contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro gli spiriti maligni» (Ef 6,12), devono esprimerla anche attraverso le strutture della vita secolare.

Come i sacramenti della nuova legge, alimento della vita e dell'apostolato dei fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una nuova terra (cfr. Ap 21,1), così i laici diventano araldi efficaci della fede in ciò che si spera (cfr. Eb 11,1), se senza incertezze congiungono a una vita di fede la professione di questa stessa fede. Questa evangelizzazione o annunzio di Cristo fatto con la testimonianza della vita e con la parola acquista una certa nota specifica e una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni del secolo.

In questo ordine di funzioni appare di grande valore quello stato di vita che è santificato da uno speciale sacramento: la vita matrimoniale e familiare. L'esercizio e scuola per eccellenza di apostolato dei laici si ha là dove la religione cristiana permea tutta l'organizzazione della vita e ogni giorno più la trasforma. Là i coniugi hanno la propria vocazione: essere l'uno all'altro e ai figli testimoni della fede e dell'amore di Cristo. La famiglia cristiana proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e la speranza della vita beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina quelli che cercano la verità. 

I laici quindi, anche quando sono occupati in cure temporali, possono e devono esercitare una preziosa azione per l'evangelizzazione del mondo. Alcuni di loro, in mancanza di sacri ministri o essendo questi impediti in regime di persecuzione, suppliscono alcuni uffici sacri secondo le proprie possibilità; altri, più numerosi, spendono tutte le loro forze nel lavoro apostolico: bisogna tuttavia che tutti cooperino all'estensione e al progresso del regno di Cristo nel mondo. Perciò i laici si applichino con diligenza all'approfondimento della verità rivelata e domandino insistentemente a Dio il dono della sapienza.

LG 36: Partecipazione dei laici al servizio regale

Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre (cfr. Fil 2,8-9), è entrato nella gloria del suo regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,27-28). Questa potestà egli l'ha comunicata ai discepoli, perché anch'essi siano costituiti nella libertà regale e con l'abnegazione di sé e la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato anzi, servendo il Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro fratelli al Re, servire i1 quale è regnare. Il Signore infatti desidera estendere il suo regno anche per mezzo dei fedeli laici: il suo regno che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace e in questo regno anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21). Grande veramente è la promessa, grande il comandamento dato ai discepoli: «Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,23).

I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro, affinché i beni creati, secondo i fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua luce che salva.

Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo.

Per l'economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere tra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della società umana. Cerchino di metterli in armonia fra loro, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al comando di Dio. Nel nostro tempo è sommamente necessario che questa distinzione e questa armonia risplendano nel modo più chiaro possibile nella maniera di agire dei fedeli, affinché la missione della Chiesa possa più pienamente rispondere alle particolari condizioni del mondo moderno. Come infatti si deve riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi, così a ragione è rigettata l’infausta dottrina che pretende di costruire la società senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed elimina la libertà religiosa dei cittadini.

Dal CCC: Le caratteristiche del Popolo di Dio

782. Il Popolo di Dio presenta caratteristiche che lo distinguono nettamente da tutti i raggruppamenti religiosi, etnici, politici o culturali della storia: – È il Popolo di Dio: Dio non appartiene in proprio ad alcun popolo. Ma egli da coloro che un tempo erano non-popolo ha acquistato un popolo: "la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa" (1Pt 2,9). – Si diviene membri di questo Popolo non per la nascita fisica, ma per la "nascita dall'alto", "dall'acqua e dallo Spirito" (Gv 3,3-5), cioè mediante la fede in Cristo e il Battesimo. – Questo Popolo ha per Capo [Testa] Gesù Cristo [Unto, Messia]: poiché la medesima Unzione, lo Spirito Santo, scorre dal Capo al Corpo, esso è "il Popolo messianico". – "Questo Popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come nel suo tempio". – "Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati" [cf Gv 13,34]. È la legge "nuova" dello Spirito Santo [cf Rm 8,2; 782 Gal 5,25]. – Ha per missione di essere il sale della terra e la luce del mondo [cf Mt 5,13-16]. "Costituisce per tutta l'umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza". – "E, da ultimo, ha per fine il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento" [LG 9]. Un popolo sacerdotale, profetico e regale 

783. Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito "Sacerdote, Profeta e Re". L'intero Popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni di Cristo e porta le responsabilità di missione e di servizio che ne derivano.

784. Entrando nel Popolo di Dio mediante la fede e il Battesimo, si è resi partecipi della vocazione unica di questo Popolo, la vocazione sacerdotale: "Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini, fece del nuovo popolo "un regno e dei sacerdoti per Dio, suo Padre". Infatti, per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo" [LG 10].

785. "Il Popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo". Ciò soprattutto per il senso soprannaturale della fede che è di tutto il Popolo, laici e gerarchia, quando "aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi" [LG 10] e ne approfondisce la comprensione e diventa testimone di Cristo in mezzo a questo mondo.

786. Il Popolo di Dio partecipa infine alla funzione regale di Cristo. Cristo esercita la sua regalità attirando a sé tutti gli uomini mediante la sua Morte e la sua Risurrezione [cf Gv 12,32]. Cristo, Re e Signore dell'universo, si è fatto il servo di tutti, non essendo "venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti" (Mt 20,28). Per il cristiano "regnare" è "servire" Cristo, [LG 36] soprattutto "nei poveri e nei sofferenti", nei quali la Chiesa riconosce "l'immagine del suo Fondatore, povero e sofferente" [LG 8]. Il Popolo di Dio realizza la sua "dignità regale" vivendo conformemente a questa vocazione di servire con Cristo.

Tutti quelli che sono rinati in Cristo conseguono dignità regale per il segno della croce. Con l'unzione dello Spirito Santo sono consacrati sacerdoti. Non c'è quindi solo quel servizio specifico proprio del nostro ministero, perché tutti i cristiani, rivestiti di un carisma spirituale e usando della loro ragione, si riconoscono membra di questa stirpe regale e partecipi della funzione sacerdotale. Non è forse funzione regale il fatto che un'anima governi il suo corpo in sottomissione a Dio? Non è forse funzione sacerdotale consacrare al Signore una coscienza pura e offrirgli sull'altare del proprio cuore i sacrifici immacolati del nostro culto? [San Leone Magno]. 

 

[Torna all'indice]

J.M.J.